Recensione: The Circle

Di Roberto Gelmi - 9 Marzo 2014 - 13:38
The Circle
Band: Neverdream
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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75

Ambizioso quarto disco in studio per i NeverDream, band attiva dal 2000 in quel di Roma. Un concept album oscuro, con una trama degna di un film di David Fincher e sonorità non manche di una certa originalità, con tanto di voci femminili, parti di sassofono e riff thrash.

“The Circle” narra una contorta vicenda dalle tinte noir, con protagonista Victor Stanley, padre-padrone misogino che vive in una cittadina texana, Corpus Christi (un nome che vale mille descrizioni) e si rende colpevole di delitti terribili, anche e soprattutto a danno dei propri figli, pensando di essere l’eletto da Dio. A distanza di più di un decennio, il detective Thomas Curtis, nella seconda parte del platter, dovrà far luce sulla sparizione di Mary Jane Kelly e scoprire cosa lega tra loro una serie di delitti davvero atipici. L’artwork si riferisce alla pazzia di Victor che traccia un cerchio immaginario intorno alla città per preservarla dal male e mantenerla pura dal peccato. Dal soggetto dell’album (a opera di G. Palmieri e G. Massimi ), inoltre, è stato tratto un libro, scritto da Maria Teresa Valle, scaricabile in pdf dal sito ufficiale dei NeverDream, così come l’intero full-length, per giunta autoprodotto. Ancora una volta generosità e progressive metal s’incontrano per il piacere dei fan che ringraziano di tutto cuore.

Ma veniamo alla musica: quasi un’ora e mezza di metal ricercato, che richiede l’attenzione totale anche dell’ascoltatore meno sprovveduto.
Dopo un “Intro” a tinte fosche, con un riffone tra Threshold (di “The Ravages Of Time”) e Dream Theater (di “Train of Thought”), “Requiem” (lunga ben nove minuti) attacca con controtempi di batteria e cori mesti. Ottimi gli inserti dissonanti di sax che dialogano in modo eccellente con le tastiere. Vengono alla mente i primi Pain of Salvation e i tedeschi Dark Suns.

“A Life Beyond” è, invece, una breve composizione narrativa con sonorità alla OSI. “Godless” presenta alcune buone linee di basso in slap e testi importanti su ritmiche granitiche. Ne risultata una musica toccante, ma non d’immediata assimilazione. Un’ottima coda con un sassofono d’applausi fa capire che non stiamo certo parlando di musica commerciale.
La successiva “Vesta” descrive la figlia angariata di Victor Stanley. Flauto traverso e chitarre acustiche impreziosiscono il breve brano; peccato per le linee vocali interpretate con pathos, ma senza troppo mordente. Due minuti scarsi di musica eterea.
“Hell’s Flower” è una canzone con armonie (troppo) simili a quelle di “In the name of God” dei Dream Theater, con un fraseggio di tastiera leitmotivico. Buono il drumwork, ma la prova del cantante non è delle più brillanti, al contrario di un memorabile finale a cappella con tanto di voci femminili.

“Mary Jane” è tra le composizioni più elegiache dell’album. Un sapiente dialogo tra sax e pianoforte crea atmosfere ricercate e toccanti. Il brano, però, presenta un ritornello troppo stucchevole, che risulta quasi irritante. “The Face Of Fear” inizia à la Riverside: atmosfere soffocanti e un buon refrain con voci femminili. Restano impressi lo stacco thrash al min. 2:44 e le tastiere “acide” che fanno da degno contrappunto. I ritmi a tratti risultano troppo blandi e una certa ripetitività rende fuori luogo un vero confronto con l’inarrivabile “Scenes From A Memory”.

Per fortuna la strumentale “Hypnosis” porta una ventata d’eclettismo al platter. Ancora un incipit sax-pianoforte, poi un riff di chitarra vicino alla recente “The looking glass” dei Dream Theater e finalmente alcune schiarite più happy e proggish, con accenni fusion. Otto minuti che ogni amante del progressive non deve lasciarsi scappare e che non temono paragoni con quanto di buono hanno proposto ad oggi gli Haken.
Non poteva mancare un cameo con testi in italiano e così “Di Lei La Morte” regala qualche emozione grazie all’apporto poetico dell’italico idioma. A dire il vero, l’attacco sinfonico, con fiati vellicanti, starebbe bene in un intermezzo dei Symphony X, ma nel prosieguo del brano pare di essersi smarriti nell’ascesa dantesca cantata dai Metamorfosi.
Si torna su lidi prog. metal con “The Actor Of Blood”, con buoni inserti acustici di chitarra ed echi di “Awake” dei Dream Theater. Graditissimo il cameo di Andy Kuntz, ospite d’onore appena reduce dall’ultimo, sempre ottimo, album dei Vanden Plas. Nel finale Giuseppe Marinelli prova a emulare la plettrata alternata di Petrucci, ma con esiti incerti.

“The circle” è un album ambizioso, dicevamo in apertura; non poteva, dunque, avere un epilogo anonimo e così “Killer Machine” è l’immancabile suite che chiude il “cerchio”. Certo, l’ascoltatore è già un poco affaticato dall’ora abbondante trascorsa, ma la voglia di sapere come si conclude il concept è tanta. Il brano inizia con delay di pianoforte e linee di basso in gran spolvero. Kuntz è ancora dei nostri e la parte centrale risulta esaltante. Ultimi minuti con ritmiche imperiose e tastiere in sfondo armonico e qualche eco del bistrattato “Octavarium” dei newyorkesi.

Cos’altro aggiungere a una proposta musicale così straripante? Di certo i NeverDream hanno le idee chiare su come comporre concept album, ma resta evidente il debito che i romani devono ai Dream Theater, soprattutto a quelli del “black album” del 2003. La produzione non grida al miracolo (pensiamo al trattamento della batteria), ma non pregiudica la qualità del sound messo in campo. La presenza del sax dà una marcia in più in fatto di personalità (i King Crimson di “Red” già lo sapevano), ma non basta per consacrare “The Circle” come capolavoro.

Davvero un peccato, perché si tratta pur sempre di musica valida ed è chiara la voglia di fare dei NeverDream. La strada verso la perfezione, del resto, è sempre impervia…

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