Recensione: The End of Journey

I Colotyphus sono una creatura a tre teste proveniente dai territori ucraini. Benché essi siano martoriati da una delle innumerevoli guerre che macchiano la Storia dell’Uomo, hanno trovato la forza di dare la luce al loro terzo full-length, intitolato “The End of Journey“.
Forse un titolo evocativo per una band che fa dell’atmospheric black metal il suo pane, la sua essenza, la sua vita, possibile destinataria di così poche parole – la fine del viaggio – eppure incisive. Il disco precedente, “My Nostalgia”, è ormai lontano quattro anni, per cui c’è stato il tempo di affinare gli strumenti e di alzare l’asticella del livello compositivo.
Circostanze che appaiono essersi verificate, in “The End of Journey“, che infatti è foriero di un sound maturo, ben delineato nel suo contorno, eseguito in maniera professionale, prodotto bene sebbene la Werewolf Promotion sia una label ultra-underground. Al contrario di tanti altri act che praticano i vari sottogeneri del black metal, non si è davanti a qualcosa di fatto in casa, bensì di un lavoro curato in ogni dettaglio, che spiccano lungo la durata dell’album invece che essere immersi in una matrice sonora quasi inascoltabile.
Nonostante questa premessa, volta a evidenziare che lo stile dei Nostri, oltre a essere deciso e adulto, è riprodotto con dovizia di particolari, bisogna sottolineare che esso non incide affatto sull’aspetto meramente artistico del disco, anzi. La patina della ridetta professionalità, insomma, non esime il mastermind Kovrizhnykh Hennadii e i suoi compagni di approfondire quanto giace di sopito nell’animo umano. Di esplorare, per meglio dire, i sentimenti contrari a effimere manifestazioni emotive quali felicità, allegria et similia.
Già l’opener-track “The Ages of Hatred Pt. I” (nome omen?) lascia presagire, nell’incipit, di un mood cupo, oscuro, tenebroso, attraversato dall’immenso dolore e dalle inconcepibili sofferenze portate da un evento bellico. Il canto disperato di Kovrizhnykh Hennadii (“The Ages of Hatred Pt. II“) è eseguito impeccabilmente grazie a delle harsh vocals che, senza esagerare, graffiano a fondo il cuore inducendolo a piangere per il sangue versato durante le battaglie. La narrazione dei testi è coerente con la musica sottostante, dando così alle linee vocali un percorso articolato invece che rettilineo e, quindi, mobilità al tutto.
La potenza del sound non è da poco, poi. A parte gli intermezzi più introspettivi scanditi dal languido canto della chitarra solista, in genere il ritmo è sostenuto, scappando a volte oltre la barriera dei blast-beats. La tipica alternanza fra tratti di furibonda espressione musicale e tratti di pacata melodiosità è una caratteristica che permea “The End of Journey” in ogni suo istante. Così facendo, i Nostri evitano accuratamente di sfiorare la noia, regalando agli ascoltatori la possibilità di ripetere i passaggi scoprendo ogni volta qualcosa di nuovo nelle varie, lunghe song che completano il platter.
Tornando all’umore imperante, i Colotyphus riescono a mantenere emozioni sublimi quali nostalgia, malinconia, tristezza, sia nelle parti più animate, sia in quelle più riflessive (“Flame of Nation“). Operazione non semplice, soprattutto quando i BPM del drumming raggiungono valori importanti. Oppure, quando il riffing della chitarra ritmica s’indurisce sfiorando il sapore di thrash come in “The First Days Reflection“, nobilitata peraltro da un notevole assolo che, se possibile, strazia ulteriormente l’anima.
La stupenda, visionaria title-track comincia con un morbido, caldo arpeggio, salvo poi accelerare per sfiorare meravigliosamente i battiti cardiaci del black metal più oltranzista. Il che, ancora una volta, dimostra come un batterista umano (Illia Zuikov) sia ancora migliore di una drum-machine. In ultimo “Behind the Halo of the Wild Lights“, cover della one-man band ucraina di atmospheric black metal Chornotop (Чорнотоп), segna il termine della traversata del combo di Lviv. Non un riempivo, però, ma un migliorativo che ha un suo perché, giacché nel tratto terminale esplode in una musicalità da pura allucinazione visiva che rimanda alle umide, fitte foreste della terra natìa.
“The End of Journey” è un’opera che non può lasciare indifferenti. La sua tendenza volta a concepire atmosfere che invitano a declinarvi sino in fondo per affogarvi è cosa da pochi. Fra i quali, appunto, primeggiano i Colotyphus.
Daniele “dani66” D’Adamo