Recensione: The God That Never Was

Di Alberto Fittarelli - 14 Marzo 2006 - 0:00
The God That Never Was
Band: Dismember
Etichetta:
Genere:
Anno: 2006
Nazione:
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80

“Finché i Dismember vivranno, il death metal
regnerà”
: così recita la biografia della storica band di Stoccolma sul
sito ufficiale. E, per una volta, non si tratta di pura retorica: i Dismember
sono infatti rimasti gli unici a portare avanti un discorso musicale ed
attitudinale ormai scomparso con gli anni, ma che ha sempre avuto parecchio da
dire. Dopo la traversie contrattuali, con i contrasti con la Nuclear Blast prima
e con la Karmageddon Media poi, il gruppo trova la sua dimensione naturale (e,
si spera, definitiva) con la connazionale Regain, label ormai assestatasi su
posizioni di assoluta eccellenza per quanto riguarda la scena estrema europea: e
The God That Never Was è il parto di una band carica al 100%,
desiderosi di bruciare i palchi di tutto il mondo con le proprie canzoni e di
lasciarsi alle spalle tanti problemi inutili. Iniziamo col dire che l’album è
quanto di più aggressivo i Dismember potessero rilasciare nel 2006:
pezzi velocissimi, a partire da una title-track semplicemente fenomenale, ma che
non rinunciano alle progressioni melodiche “scoperte” ai tempi di Death
Metal
e Hate Campaign. La produzione, curata dallo stesso Fred
Estby
, è “crunchy” a dovere, con un suono di chitarra che ci catapulta
direttamente ai tempi di Indecent And Obscene, e scusate se è
poco! 

Il disco è una collezione degli accenti che negli anni la band ha saputo
conferire alla propria musica: dall’aggressione pura della title-track, al
tributo al gruppo omonimo nella soffocante Autopsy, per finire nelle
progressioni melodiche/maideniane di Time Heals Nothing e Phantoms (Of The Oath),
strumentale che mostra quanto labile sia a volte il confine che li separa dal
suono di Gothenburg (che a loro, come agli Entombed, deve tutto).

Tutti gli ingranaggi sembrano insomma girare per il
verso giusto, visto che i filler sono inesistenti e che l’intero album si
assesta su livelli che il seppur buono Where Ironcrosses Grow non
raggiungeva se non a sprazzi: ora è solo tempo di veder suonare su un palco un
brano come Time Heals Nothing per capire cosa significhi, oggigiorno,
essere death metal.

Alberto
‘Hellbound’ Fittarelli

Tracklist:

1. The God That Never Was 
2. Shadows Of The Mutilated 
3. Time Heals Nothing 
4. Autopsy
5. Never Forget, Never Forgive 
6. Trail Of The Dead 
7. Phantoms (Of The Oath) 
8. Into The Temple Of Humiliation 
9. Blood For Paradise 
10. Feel The Darkness 
11. Where No Ghost Is Holy

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