Recensione: The House Of Blue Light

Di Cristian Marchese - 15 Dicembre 2005 - 0:00
The House Of Blue Light
Band: Deep Purple
Etichetta:
Genere:
Anno: 1986
Nazione:
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80

Provate a scoprire ciò che si nasconde dietro l’emblematica porta del cover artwork di questo “The House Of Blue Light” e scoprirete un gruppo che nonostante l’enorme successo storico e quello più recente derivante dalla fruttuosa reunion di “Perfect Strangers”, appare per niente annoiato ed ha ancora voglia di fabbricare dell’ Hard rock di quello con gli attributi.

La formazione ormai riconfermata (quella Mark II) si ripresenta sul mercato, a dispetto di uno stomaco che dovrebbe essere ormai pieno da tempo, con un disco che conferma quanto già fatto e si mostra pressoché privo di passi falsi, magari non soddisfa in pieno le aspettative dei fans di quel periodo, abbagliati dall’esagerato “Perfect strangers”, ma rilancia la voglia della band di continuare a cambiare quel tanto che basti per assicurarsi una multisfaccettatura che doni longevità e che assicuri sempre un ottimo mercato all’immenso nome Deep Purple, (come se ce ne fosse bisogno).
“The House Of Blue Light” rappresenta un album di transizione tra quello di reunion, più Heavy, e “Slaves And Masters”, più AOR, quindi senza la benché minima indecisione trasporta le proprie note sui flebili ma in questo caso azzeccatissimi binari della sperimentazione, che non si nota in maniera massiccia, ma che basta ad etichettare a mio parere questo platter come di transizione. A dimostrazione di questa tesi ci sono i fatti: l’esplosione qualitativa e commerciale di “Perfect Strangers”, prima, ed il grande cambiamento comunque valido di “Slaves And Masters” poi.
Avendo una visione ormai più chiara di questo album, che tra gli scaffali degli stores passa a volte ingiustamente inosservato, diciamo anche che colpisce prepotentemente l’ascoltatore oltre che per i numerosi highlight che andrò poi ad elencare, anche per un sound particolare, cristallino ma pesante al punto giusto, caratterizzato per esempio dal nuovo modo di cantare di Gillan post-reunion, con quella sovrapposizione di linee vocali che rendono la sua timbrica piacevole ed aggressiva, dall’adozione da parte di Jon Lord di un uso più presente di tastiere che non si limitino necessariamente all’organo, dal basso più pomposo e quadrato di Roger Glover, dalla batteria ormai contaminata dall’Heavy più incallito di Ian Paice e dalla classe, la furia, e la parsimonia che Ritchie Blackmore ha usato per gli arrangiamenti, a volte aiutati dai sintetizzatori, collaudati già negli ultimi Rainbow.
Con queste premesse “Bad Attitude” inaugura il disco con l’arroganza e lo stile di chi fa Rock da anni, e si presenta come un pezzo stupendo, caldo, cadenzato e arrabbiato, adatto perfettamente all’aria che tira sul resto del lavoro, seguito poi con il nervosissimo e sinfonico riff di “The Unwritten Law” che firma uno degli ultimi capitoli Blackmore – Gillan in tema di unisoni. Oltre l’inizio sfavillante il pezzo ha dalla sua un arrangiamento eccellente e l’orecchiabilità della hit radio.
A seguire, un episodio comunque gradevole, ma forse un po’ più deboluccio rappresentato da “Call Of The Wild”, che potrebbe benissimo essere la sigla di una serie televisiva anni ’80, e che azzarda come detto in precedenza strade ancora inesplorate dai Purple.
A rianimare la fiamma del Rock, dopo il precedente capitolo c’e “Mad Dog”, un mid–tempo arricchito non solo dall’importante solo di Lord, ma soprattutto dal feeling di Gillan, che introduce egregiamente grazie alla sua armonica uno dei capisaldi del disco: “Black & White”. Le due track vengono seguite dal tipico riff “faccia da schiaffi” Blackmoriano del ritornello di “Hard Lovin’ Woman” e dalla colossale “The Spanish Archer” che fa capire che per quanti fossero i dubbi all’epoca sulla conferma del cantante per questo disco, alla fine, nonostante i numerosi attriti, sia stata fatta sicuramente la scelta giusta.
È doveroso inoltre registrare i cori iniziali di “Strangeways”, che sfociano in un piacevole Hard/pop da contestualizzare all’interno del disco, il suadente blues a fior di pelle di “Mitzie Dupree”, che ammicca l’occhiolino a soluzioni più vicine ai mitici Whitesnake di Coverdale e la bordata finale di “Dead Or Alive” che tramortisce in pieno tutto cio che di sensuale era stato detto sulla traccia precedente.
L’amalgama è ottima ed il disco riuscito, sicuramente da consigliare a chi ignora la discografia anni ’80 dei Deep Purple, essendo legato per ovvi motivi a quella più datata.

Tracklist:

01 – Bad Attitude
02 – The Unwritten Law
03 – Call Of The Wild
04 – Mad Dog
05 – Black & White
06 – Hard Lovin’ Woman
07 – The Spanish Archer
08 – Strangeways
09 – Mitzie Dupree
10 – Dead Or Alive

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