Recensione: The Immortal

Di Daniele D'Adamo - 15 Settembre 2025 - 17:00

Gli In Mourning, paladini del melodic death metal che giunge dalle terre boreali, hanno avuto una carriera regolare, cominciata nel 2000 e che ha dato come frutti sette full-length di cui l’ultimo è “The Immortal“. Forse questi potrebbero sembrare pochi ma, si sa, la bontà di una band non si misura dalla quantità bensì dalla qualità.

E, gli In Mourning, di quest’ultima ne hanno da vendere a iosa, talmente è tanta da renderli fra i migliori act a livello internazionale che circolano, se non dentro, nei paraggi del metal estremo. Migliori, fra l’altro, poiché, album dopo album, hanno saputo compiere un passo in avanti nel loro percorso evolutivo.

Tant’è che l’incipit di “Silver Crescent” odora fortemente di progressive metal, complicato com’è da ritmi sincopati, lasciando intendere ciò che poi in effetti non è; e cioè una meravigliosa, struggente, cavalcata in doppia cassa verso i sentimenti più puri, incontaminati, che albergano nel cuore delle anime empatiche. Niente gioia né felicità. No. Solo una sconquassante malinconia. Il brano, tornando al discorso di inizio paragrafo, in effetti è piuttosto articolato presentando al suo interno mutevoli cambi di direzione, ramificazioni, elementi non-lineari. Non per ciò, tuttavia, si devono trarre facili conclusioni.

The Immortal“, si ripete, fa parte della famiglia del death, e su questo non ci sono dubbi, una volta che si viene spinti verso le stelle grazie ai devastanti blast-beats del nuovo batterista Cornelius Althammer (“As Long As the Twilight Stays“). Del resto, questo fa parte del DNA dei Nostri, che non ripudiano mai la loro origine, questo sì, meno oltranzista rispetto agli anni precedenti.

Le possibilità di concepire e realizzare musica un po’ più difficile del solito è data dalla presenza, in formazione, di due ugole e tre axe-man, che possono alternarsi fra loro al fine di definire uno stile accessibile a tutti sebbene non sempre immediato nella comprensione come tanti altri. Tobias Netzell e Björn Pettersson disegnano sulla cupola celeste linee di canto che si sovrappongono, si separano, si aggrovigliano, fra growling, harsh e clean vocals. È una caratteristica che si trova parecchio, in giro ma solo qui, e da qualche altra rara parte, raggiunge livelli di perfezione totale. Così com’è irreprensibile il lavoro eseguito dalle sei/sette corde di Netzell, Pettersson e Tim Nedergård. È soprattutto nella fase solista che essi danno il meglio, regalando a chi ascolta delicati arpeggi, dorati ceselli e assoli che, assieme, costituiscono il leit-motiv praticamente di tutti i brani. Non che nella parte ritmica siano molli e senza nerbo. Affatto. Quando serve, i riff sono ruvidi, a tratti duri e cattivi (“The Sojourner“).

Ma è nei chorus che svetta forte e robusto quel quid in più tale da elevare il combo svedese in alto, molto alto, come sound complessivo di uno stile, si ripete accessibile ma anche significativo di una forza molto energica nel renderlo unico nel suo genere (“Song of the Cranes“). C’è poco da dire, in questo, giacché gli In The Mourning riescono a dare alla luce ritornelli che innescano sogni a occhi aperti – clamoroso quello di “Staghorn“. Non si tratta di essere catchy, no. Al contrario, la raffinatezza di questi refrain e la loro melodiosità li rende profondi per entrare e vagare all’infinito nella mente, per annegare infine nel mare della nostalgia.

Prova ne è la suite finale, “The Hounding“, che funge un po’ da riassunto di quanto elaborato in precedenza per le altre song. Rabbia, furia cieca, disperazione, melanconia, orecchiabilità si rincorrono per tagliare il traguardo di un percorso di crescita costante. Non sono rari i momenti in cui salgono in gola i singhiozzi di tristezza per una vita che scivola fra le mani come sabbia del mare, come non sono rari i segmenti in cui emerge, dirompente, l’energia del metal. E così sono le canzoni. Così diverse le une dalle altre che mandarle a memoria è un piacevole sforzo.

Con “The Immortal” gli In Mourning, autori di un’opera di assoluta eccellenza tecnico/artistica, lasciano intravedere ulteriori margini di miglioramento. Il che, davvero, non è poco.

Daniele “dani66” D’Adamo

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