Recensione: The Last Supper

Di Alessandro Zaccarini - 18 Gennaio 2005 - 0:00
The Last Supper
Band: Grave Digger
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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67

Dopo aver lasciato ai posteri il trittico medievale ed essere passati dalla narrativa di Edgar Allan Poe, i Grave Digger rimangono sulle tematiche a sfondo mitologico già abbracciate con lo scorso Rheingold e si avventurano nella tradizione cristiana con il loro dodicesimo album da studio.

Tralasciando una cover al limite della decenza (quale mostro alieno sta uscendo dal pane?), già dall’accoppiata Passion / The Last Supper, chi ha confidenza con la discografia del becchino noterà qualcosa che non va: niente intro in crescendo e niente detonazione nell’opener schiacciasassi. La title track è un mid tempo piuttosto banale, praticamente senza un riff degno di questo nome, piacevole ai primi ascolti per la sua estrema semplicità ma presto stancante. Buono soltanto il passaggio corale del refrain, probabile e unico punto di presa del pezzo in sede live. La successiva Desert Rose esplode con melodie ibride a cavallo tra speed, power e thrash nella maniera tanto cara ai Rage, per poi procedere in un continuo alternarsi di frangenti lenti e veloci. Ben riuscite le parti veloci, che oltre che mostrare un riffing degno del ‘cugino’ Peavy Wagner ricordano i Grave Digger della trilogia, con la graffiante voce di Chris Boltendahl che ruggisce sostenuta da un coro minimale e una linea ritmica dinamica e serrata. Non si può dire invece altrettanto delle parti lente, che spezzano il ritmo senza riuscire a creare atmosfera, risultando estremamente dannose per il traino del pezzo. Ancora tempi decisamente blandi in Grave In The No Man´s Land, altro pezzo che si trova ben sotto le potenzialità della band, con il suo lontano retrogusto thrash grazie ad un paio di accorgimenti che richiamano alcuni modi di scrivere tipici dei Megadeth. Assolutamente da dimenticare Hell To Pay, dove un riffing discreto viene contaminato da venature troppo moderniste per una band come i Grave Digger. Un peccato davvero, perché l’innesto di un chitarrista vecchia-scuola come Manni Schmidt aveva giovato alla band, portando una nuova carica in sede live e garantendo, in studio, quella ventata di anni ottanta che faceva la forza degli irruenti e oscuri becchini fino ai primi anni post-reunion. Un ingrediente che aveva dato i suoi frutti in Rheingold, dove l’epicità e il songwriting radicato in un paio di decadi fa si sposavano quasi al meglio. Con Soul Saviour si intravedono i migliori Grave Digger dell’album, ovvero quelli più simili al passato. Riffing d’apertura degno dei tempi di Heavy Metal Breakdown e sviluppo del brano vicino alle cose migliori di Rheingold. Pezzo finalmente carico e capace di mischiare gli stilemi dei Grave Digger in maniera efficace e convincente, con un ritornello trascinante, cadenzato e un assolo ispirato. Ricetta già assaggiata quella di Crucified: semi ballad che nasce da un semplice e cupo arpeggio per poi tramutarsi in un mid-tempo dove la voce di Boltendahl assume tinte sofferte. Oltre 7 minuti di canzone che però non riescono ad emergere oltre alla scarna sufficienza per la loro ripetitività e poca ispirazione. Seppure la genetica troppo melodica di Divided Cross non sia marchiata puro DNA dello Scavatore, siamo di fronte a un pezzo ben strutturato, musicalmente piuttosto vicino ai tempi di Knights Of The Cross. Un ritornello decisamente gradevole e i fraseggi della chitarra di Manni Schmidt i punti forti del brano.
La parte centrale dell’album continua nella sua opera di recupero di un lavoro fino ad ora piuttosto mediocre con due pallottole che, finalmente, mostrano la grinta e la carica che devono andare di pari passo con il monicker Grave Digger: The Night Bifore e Black Widows. Entrambe massiccie, decise e spaccaossa. The Night Before ricorda molto da vicino The Dark Of The Sun, mentre Black Widows, pezzo a cui va una menzione di merito, grazie al connubio tra la voce di Chris Boltendahl e il riff, sostenuto dall’incalzante doppia cassa di Stefan Arnold, riporta alla mente i tempi dello spettacolare The Reaper. Tutto quanto c’è da ricordare finisce però qui, perché Hundred Days è il manifesto della mancata grandezza di questo lavoro: un pezzo poco ispirato salvato in extremis da un ritornello orecchiabile; mentre la ballatona di fine album non avvicina nemmeno lontanamente, musicalmente o per intensità, la cara vecchia The Ballad Of Mary. Il buon Chris, così splendidamente aggressivo sui pezzi più tirati, si muove troppo sgraziatamente e a disagio sul piano, le orchestrazioni e le atmosfere di Always And Eternally.

Da fan cresciuto con le mazzate di The Reaper e gli inni bellici di Tunes Of War, non posso che notare quanto questo album viaggi sotto i canoni passati e presenti dello Scavatore. Probabilmente Chris e compagni si sono spinti troppo oltre il loro recinto, solcando mari un po’ troppo lontani dalle loro attitudini. Se il riffing semplice e immediato, marchio di questa band, si sposava a meraviglia con il grido di libertà dei ribelli scozzesi, con l’ira dei Templari o le vicende di wagneriana ispirazione (tanto per non andare troppo indietro nel tempo) altrettanto non fa con una narrazione più introspettiva e complessa come quella degli ultimi giorni di Cristo. Anche gli episodi più oscuri, che teoricamente dovrebbero essere il pane quotidiano della band (ricordate Heart Of Darkness?) risultano meno ispirati del solito, e i pezzi dell’album che possono reggere il paragone col materiale passato, anche solo dell’ultimo Rheingold, sono davvero pochi. Disco discreto, ascoltabile, ma non certamente degno del monicker che porta.
Alla prossima becchino, sperando di ritrovarti in rinnovata splendida forma.


Tracklist:

01. Passion
02. The Last Supper
03. Desert Rose
04. Grave In The No Man’s Land
05. Hell To Pay
06. Soul Savior
07. Crucified
08. Divided Cross
09. The Night Before
10. Black Widows
11. Hundred Days
12. Always And Eternally

Alessandro ‘Zac’ Zaccarini

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