Recensione: The Mandrake Project

Di Manuel Gregorin - 1 Marzo 2024 - 21:30
The Mandrake Project
Etichetta: BMG
Genere: Heavy 
Anno: 2024
Nazione:
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82

The Mandrake Project è probabilmente uno dei dischi più attesi di quest’anno. Calendario alla mano in effetti, Bruce Dickinson era da quasi vent’anni che non si faceva vivo con il suo progetto da solista. Dal 2005 per l’esattezza, quando pubblicò Tyranny Of Soul per poi venir avvolto nella sua miriade di impegni, senza neanche il tempo di fare un tour di supporto all’album. Un’eternità se ci si pensa. Ma, nonostante i tour mondiali con gli Iron Maiden, la sua attività di pilota, realizzare la sceneggiatura di un film, scrivere qualche libro, la carriera solista di Bruce Dickinson non è mai stata in discussione. Era solo messa in standby a tempo indeterminato, ma sempre pronta a saltare fuori al momento giusto. In fondo Bruce ne ha bisogno, per lui è una valvola di sfogo essenziale. Un po’ come una piccola infedeltà amorosa di tanto in tanto, dopo anni di vita coniugale. Una situazione della quale la sua dolce metà ne è al corrente ma la tollera comunque. Quella in casa Iron Maiden alla fine è una relazione aperta. Meglio concedere a Bruce qualche scappatella piuttosto che rischiare una nuova rottura come quella avvenuta nel 1993. Sai che imbarazzo con i parenti (la EMI) dover spiegare un nuovo divorzio. E poi bisogna pensare al bene dei figli (i fans), loro sì che ci rimarrebbero male.

Ecco così arrivare il momento per The Mandrake Project, un album su cui Bruce ha comunque lavorato costantemente in questi anni. Ogni volta che anche lui, strano a pensarlo, aveva del tempo libero, si dedicava pazientemente alla stesura questa sua opera.
Per i lettori più giovani, che magari non conoscono la carriera parallela di Mr Dickinson, bisogna specificare che non si tratta di una versione alternativa della band di Steve Harris, ma un percorso artistico con cui, il cantante, può provare qualche sapore un po’ diverso.
The Mandrake Project è stato registrato ai Doom Room di Los Angeles, ed anche questa volta Bruce ricorre alla collaborazione di Roy Z, divenuto ormai il suo uomo di fiducia, nel ruolo di produttore e coautore.

Bruce però è un vulcano di idee sempre in fermento, ed un semplice album nuovo dopo vent’anni era troppo poco per lui. Ecco arrivare in parallelo a questa nuova pubblicazione, anche un fumetto che riprende le tematiche del disco. Il primo episodio uscirà nei negozi per metà gennaio e narrerà una storia creata dallo stesso Bruce. Un racconto incentrato su oscure trame di potere, lotta per l’identità, scienza e occulto e quant’altro uscisse dalla fantasia dello storico vocalist. Tutti argomenti che verranno approfonditi nelle opportune sedi, noi ora però, ci concentreremo sulla musica.

The Mandrake Project segue, sostanzialmente, la scia degli ultimi lavori precedentemente realizzati da Dickinson, proponendo un metal di matrice classica con cui però, può provare anche soluzioni che nei rigidi schemi degli Iron Maiden non gli sarebbero sempre possibili. La formazione vede ancora il fido Roy Z nel ruolo di chitarrista e bassista. Chiudono il cerchio infine Mistheria alle tastiere e Dave Moreno alla batteria, entrambi già presenti su Tyranny Of Soul.

Un intro dal gusto tetro apre la strada alle prime note di Afterglow Of Ragnarock, un tempo medio costruito su di un riff corposo con sfumature epiche e toni teatrali. Il pezzo era già noto ai più, avendo anticipato di qualche settimana l’uscita del disco. Una chitarra vivace ed un ritmo scalciante ci portano in sella al seconda traccia Many Doors To Hell, un hard rock pregiato con belle melodie che si avvicina a certe cose più recenti dei Deep Purple, band per la quale Dickinson non ha mai nascosto la sua stima. Inoltre deve aver imparato da Ian Gillan qualche trucchetto su come dosare la sua voce con furbizia. D’altronde, se l’età avanza, bisogna anche tenersi da conto. Bruce dimostra infatti di destreggiarsi bene anche senza portare la voce al limite. Rain On The Grave è un’altra vecchia conoscenza per i fans, essendo anch’essa già in circolazione da un po’. Il brano è una specie di danza macabra con sfumature blues. Il tutto scandito da un ritmo martellante su cui Bruce ricopre il ruolo di cantastorie malefico. Un basso pulsante, accompagnato da arpeggi con riverbero, apre la strada di Resurrection Men. Subentra poi un ritmo di chitarra, che pare figlio diretto di Apaches dei The Shadows, a far da base ad un cantato sofferto. Il pezzo prosegue così per qualche minuto, poi sorprende tutti mutando di colpo in una marcia cadenzata che odora di Black Sabbath lontano un miglio. Una trovata che vuole evidentemente essere un omaggio alla band di Tony Iommi. La successiva Fingers In The Wound è una semi-ballad dai contorni di un opera drammatica. Verso metà brano poi, si fanno spazio sinuose melodie orientali a cullare l’ascoltatore.

Arriviamo ad Eternity Has Failed che altri non è che If Eternity Should Fail degli Iron Maiden. Si dice che Steve Harris, dopo averla sentita, la volle come apertura di Book Of Souls. La versione quà presente anche se più breve, è abbastanza simile a quella proposta dai Maiden. Inizia con la voce accompagnata da un flauto che evoca i fantasmi di antiche civiltà Maya. Quando poi il pezzo esplode, si notano subito una maestosità ed epicità più marcate rispetto alla versione dei Maiden. Sulla metà del pezzo, Roy Z si sbizzarrisce in un assolo infuocato, a differenza di quello più scarno (praticamente inesistente) di Book Of Souls. Che sià stata questa la clausola per permettere a Harris di mettere la mani sulla canzone? Chi lo sa.

Mistress Of Mercy è un hard rock semplice e diretto con un ritornello coinvolgente. Una traccia, che nella sua semplicità, sa come andare a segno. Prima che Roy Z si lanci in un altro assolo, trova spazio un fraseggio di maideniana memoria costruito però, su di un corposo riff thrash/groove di quelli che non sentiremo mai su un album degli Iron Maiden. Arriva il momento soft con Face In The Mirror, una ballata a trama pianistica dove Dickinson tesse belle melodie sognanti. Il brano forse vorrebbe essere la Man Of Sorrow della situazione, ma pur essendo di buona fattura, la traccia di Accident Of Birth rimane sempre uno scalino sopra. Shadow Of The Gods inizia anch’essa come una ballad, con i primi minuti a galleggiare su note malinconiche con leggeri inserti orchestrali. Ma ecco sfoderare l’asso nella manica come su Resurrection Men. Subentra una chitarra ruvida a cambiare le carte in tavola, ed ecco che la canzone muta pelle in un hard rock sanguigno.

In chiusura troviamo la lunga Sonata (Immortal Beloved). Il brano inizia come una nenia sulle note di un arpeggio vellutato. Successivamente, assume una struttura epica ed evocativa, viaggiando fra ombre malinconiche con alternanza di strofe cantate a suggestive parti narrate. Sul finale poi, viene lasciato campo libero a Roy Z per un assolo mesto, dove a tratti si vanno ad evocare degli echi di pinkfloydiana memoria.

The Mandrake Project è un disco che va a colpo sicuro, in cui Bruce Dickinson non lascia niente al caso. Le canzoni sono ispirate e ben arrangiate. Come già sentito nelle recenti prove con i Maiden, la voce è ancora in forma, anche se con qualche piccolo accorgimento (ricordiamoci dei 65 anni sul groppone e di un cancro alla gola!).
Un lavoro di metallo teatrale dalle tinte cupe, come già lo erano le sue uscite precedenti.

La lunga attesa alla fine ne è valsa la pena: la coppia Dickinson/Roy Z ha ancora molte cose da dire…

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