Recensione: The West Pole

Di Tiziano Marasco - 14 Luglio 2011 - 0:00
The West Pole
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Anno: 2009
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70

È del tutto improbabile accostarsi a questo disco e giudicarlo semplicemente per quello che è. Perfino dopo anni dalla sua uscita. Troppo difficile rimanere distaccati nell’esaminare il lavoro di una grande band rimasta orfana di una grande voce. Troppo difficile per i fan non etichettare la nona uscita del gruppo olandese come “il primo disco senza Anneke van Giersbergen”. Troppo difficile non restare lì a pensare, a desiderare, che la sirena torni al suo posto, alla guida del gruppo.

Anche perché, ad essere obbiettivi, la carriera solista intrapresa da Anneke non è del tutto soddisfacente. Due uscite a nome Agua de Annique: la prima (“Air”), decisamente buona, prosegue la strada intimista di dischi come “Souvenirs” e “Home”; la seconda (“In Your Room”), invece, si risolve in una sequela di canzoni carine ed innoque (tranne Adore) che si ascoltano e dimenticano nel volgere di una settimana. Un live e un paio di collaborazioni con Danny Cavanaugh.
Ma torniamo ai The Gathering. I quattro olandesi hanno subito capito il principio per cui indietro non si torna e si sono dati da fare per trovare una nuova voce e nuove soluzioni musicali. Nell’anno successivo alla dipartita di Anneke le news sul sito saltavano di palo in frasca. Dicevano di tutto e si risolvevano in niente: un album doppio, un album strumentale, un album con due cantanti, collaborazioni con Kristoffer Rygg (magari!), etc.
Ma no, niente di tutto questo.
Alla fine la scelta è caduta su una bionda norvegese di nome Silje Wergeland. Nome semisconosciuto ai più, ma che aveva sicuramente catturato il cuore di molti grazie ad una comparsata nella canzone “Shipwrecked Fronteer Pioneer”. Brano inserito in “Sideshow Symphonies”, alias il canto del cigno di quella straordinaria formazione che sono stati gli Arcturus. Chi fosse rimasto incantato dalla voce soave di costei, avrebbe potuto scoprire che era la frontwoman di un gruppo norvegese tutto al femminile dal nome Octavia Sperati. Gruppo che aveva dato alle stampe un paio di dischi un po’ heavy e un po’ gothic che si ascoltavano e dimenticavano nel giro di una settimana. Una voce che, tuttavia, lasciava ben sperare.
Al termine di questo lungo viaggio, ecco finalmente nella primavera del 2009 (mantenendo così costante la media della band di un album ogni tre anni) “The West Pole”, con la sua copertina capovolta e i suoi cinquantaquattro minuti di musica.
L’attacco è davvero grandioso. “When Trust Becomes Sound” è una song strumentale grezza, diretta e violenta, dominata da chitarre ed attitudine rock, che trasuda tensione da ogni nota e procede in un crescendo di forza e disperazione. La tempesta tuttavia passa, si spegne in un tono lungo e stiracchiato dalle cui nebbie sorge “Treasure”, la ripresa. Dolcissima, sebbene le schitarrate continuino imperterrite a spadroneggiare. Basta, dopo tanto dolore è ora di rialzarsi. Con “Treasure” ci viene presentata Silje, la quale tuttavia si propone in una veste nuova, molto più dolce che con le Octavia, ancora più eterea di quanto non si fosse sentito nel disco degli Arcturus. Un cantato molto più orientato, lo si dice chiaramente, al modello di Anneke. Da qui in poi la strada seguita è chiara. Le tastiere perdono un po’ d’importanza rispetto alle uscite precedenti, il sound torna decisamente più roccioso e scarno, ci riporta indietro di diversi anni. In questa prima parte “The West Pole” sembra un miscuglio tra la grandiosità gotica di “Nighttime Birds” e la suadenza progressive di “How to Measure a Planet”; il tutto coordinato dall’orecchiabilità e dalla raffinatezza acquisite nelle prove dell’epoca trip-rock. “All You Are” è ancora una canzone rockeggiante, chitarrosa e davvero catchy, con un ritornello teso, mentre nella successiva title-track i toni si smorzano un po’: “The West Pole” è una canzone che sembra voler rinverdire i fasti del citato “How to Measure a Planet”, una marcia lenta e maestosa, ancora dominata da chitarre semplici e imponenti.
Nella fase centrale del disco, invece, le atmosfere cambiano radicalmente: si fanno molto più sospese, pur non abbandonando mai del tutto la tensione di fondo che anima l’intera opera. Tornano a predominare le tastiere, al microfono compare un’ospite di tutto rispetto come Marcela Bovio ed ecco plasmata “No Bird Call”. La quale ripesca dal repertorio dei Dead Can Dance più tenebrosi, mentre la successiva, l’affascinante “Capital of Nowhere” sembra in tutto e per tutto una ballata tratta da “Vinland Saga” dei Leaves’ Eyes. Pure la voce sembra quella di Liv Kristine, infatti poi si scopre che ai microfoni, anche in questo episodio, c’è una guest, Anne Van den Hoogen.
Ancora un istante di requie, con la scarna “You Promised Me a Symphony”, tutta piano e voce, e l’album riprende un po’ di ritmo con “Pale Traces”, brano in cui Silje fornisce un’altra buona prova della sua voce. Ancora tempo per una buona “No One Spoke, dove continua ad alternarsi una strofa melliflua ad un ritornello frenetico, quasi isterico, prima di arrivare al gran finale: “A Constant Run”, canzone di una bellezza quasi angosciante. Qui si riuniscono in sette minuti e mezzo la tensione percepita in apertura, ritmi sostenuti, un meraviglioso ritornello saturo d’inquietudine ed un’altrettanto splendida chiusura strumentale che ne fanno di sicuro l’episodio migliore dell’album.

Al momento di tirare le somme si può dire che le idee siano tutt’altro che esaurite, ma anche che la band sia stata frenata dalle eccessive aspettative concentrate sul “primo disco senza Anneke”. Il disco, infatti, manca un po’ di originalità, ovvero le canzoni mancano di ispirazione genuina (eccezion fatta per due o tre episodi davvero convincenti). È un po’ come se i The Gathering, per timore di sbagliare, avessero preferito ritornare su sentieri già noti, mischiando un po’ le carte. Solo le successive uscite potranno decretare la loro rinascita o la loro definitiva caduta. Per ora rimangono promossi dal mestiere e dalla stima che ancora i fan nutrono per loro. La fiducia nella grande band è confermata.

Tracklist:
01 When Trust Becomes Sound
02 Treasure
03 All You Are
04 The West Pole
05 No Bird Call
06 Capital of Nowhere
07 You Promised Me a Symphony
08 Pale Traces
09 No One Spoke
10 A Constant Run

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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