Recensione: Theatre Of Pain

Di Angelo Caddia - 21 Luglio 2007 - 0:00
Theatre Of Pain
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Anno: 1985
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78

Nella carriera di una rock band il terzo album rappresenta il momento della verità, costituendo un traguardo fondamentale ed il miglior indice di giudizio per la critica.
Nel 1985 i Motley Crue, reduci da un disco fantastico e superlativo quale era ‘Shout At The Devil’ e dal primo tour mondiale che li aveva visti di spalla a Ozzy Osbourne e Kiss nelle arene americane e ospiti del “World slavery tour” degli Iron Maiden nel continente europeo, pubblicano ‘Theatre Of Pain’, un disco interlocutorio che vede la band americana operare un certo restyling sia dal punto di vista musicale che da quello del look, da sempre elemento fondamentale del gruppo.

Le sessions di registrazione per il terzo platter furono comunque travagliate, a causa della tragedia provocata da Vince Neil, vocalist della band, che completamente ubriaco causò in un incidente stradale la morte dell’ amico e batterista degli Hanoi Rocks Nicholas “Razzle” Dingley (la faccenda si concluse con la condanna per omicidio nei confronti di Neil che se la cavò, non senza polemiche, con una pesante cauzione da 2 milioni di dollari e circa 200 ore da dedicare ai servizi sociali); il successore “Shout at the Devil” (1983) segnò dunque una svolta, rimpiazzando la furia cieca che aveva caratterizzato la precedente produzione con un sound sempre hard ma dai giochi chitarristici più patinati ed eleganti: scelta che si rivelò decisamente positiva dal punto di vista commerciale.
Fu netto infatti il passaggio dall’hard’n heavy cromato e potente che aveva reso il nome dei Crue celebre nella scena losangelina ad un suono più pacato, levigato, molto più “radio friendly” e orecchiabile, vicino per certi versi all’hard più melodico e festaiolo di gruppi come Ratt e Bon Jovi.
Anche il guardaroba risultò aggiornato e riveduto: non più nera pelle e make-up pseudo satanici, ma sgargianti e colorati costumi di scena.
Il pubblico americano parve gradire la svolta, premiando il disco con consistenti vendite (quattro volte disco di platino) e spingendo l’album verso le posizioni alte della classifica di Billboard ( #6 nelle classifiche americane, in chart per ben 72 settimane).
“Theatre of pain” fu in realtà, un prodotto abbastanza altalenante, con diverse songs davvero mediocri, realizzate con l’evidente compito di allungare il minutaggio di un Lp che nemmeno lontanamente poté rivaleggiare con il suo predecessore.

L’analisi circostanziata, ci presenta una apertura da ”party” a carico della trascinante “City boy blues” , in cui Vince Neil si dimostra singer di livello assoluto, con una interpretazione davvero ottima; il lavoro prosegue in crescendo con una cover dei Brownsville Station riveduta e corretta, la bellissima “ Smokin’ in the boy’ s room”, dove cori e chitarre si intrecciano in un ritmo vorticoso e scanzonato. Questa traccia, aiutata dall’ heavy-rotation di uno dei video più ironici e sarcastici mai realizzati, divenne un vero e proprio hit, giunto alla posizione #16 delle charts statunitensi e più tardi fregiato del titolo di vero inno generazionale per molti teenagers americani. A seguire, la potente “Louder than hell”, in cui un tellurico Tommy Lee “mazzuola” a dovere il suo drum-kit e la sognante power ballad “Home sweet home”, il cui pregevole videoclip risulta, nel 1985, il più richiesto dai giovani telespettatori di MTV.
Il disco ci regala poi un altro pezzo di buona fattura come “Tonight”, dall’incedere ammiccante, che però rivela qualche pecca nei cori un pò troppo scontati.
Da qui in avanti è purtroppo la mediocrità a prendere piede: “Use it or lose it” è uno scialbo rock’n roll privo di mordente e coinvolgimento, con un Vince Neil piatto e monocorde, la successiva “Save our souls” parte bene con una intro solenne ma si perde definitivamente nel bridge centrale troppo ovvio e prevedibile, mentre ancora peggio risulta “Raise your hands to rock”, ballad che plagia clamorosamente “I wanna rock” dei Twisted Sister (ascoltare per credere: la linea melodica, identica ed il ritornello, musicalmente uguale), rendendo tuttavia il confronto decisamente insostenibile… siamo lontani anni luce dal tiro dinamitardo della Sorella Schizzata.
“Fight for your rights” infine, riesce a rialzare le quotazioni del disco con una canzone finalmente grintosa, con il solito Tommy “T-BONE” Lee sugli scudi.

La produzione dell’album ad opera di Tom Werman smussa il crudo Crue-sound degli esordi in favore di un hard rock di facile presa, ultra melodico che strizza l’occhio ai padri putativi dell’hard a stelle e strisce come Kiss, Aerosmith ed Alice Cooper, mentre lo stile chitarristico di Mick Mars si fa sempre più bluesy ed elegante, perdendo forse in impatto e potenza.
In sostanza, strizzando l’occhio alle classifiche ed inquadrando una band comunque decisa a proseguire sul folle e variopinto sentiero intrapreso quattro anni addietro, ”Theatre of Pain” è l’album che permette ai Motley Crue di valicare definitivamente i confini degli Stati Uniti, esportando il proprio sound in tutto il mondo: un capitolo forse in tono minore, ma ugualmente fondamentale nella carriera di una delle maggiori e più acclamate bands hard rock mai apparse sulla scena.

Tracklist :

01. City Boy Blues
02. Smoking In The Boys Room
03. Louder Than Hell
04. Keep Your Eye On The Money
05. Home Sweet Home
06. Tonight (We Need A Lover)
07. Use It Or Lose It
08. Save Our Souls
09. Raise Your Hands To Rock
10. Fight For Your Rights

Line Up:

Vince Neil – Voce
Mick Mars – Chitarra
Nikki Sixx – Basso
Tommy Lee – Batteria

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