Recensione: Time for a Miracle

Di Vito Ruta - 12 Settembre 2020 - 21:57
Time for a Miracle
Band: Perfect Plan
Etichetta: Frontiers Music
Genere: AOR 
Anno: 2020
Nazione:
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75

Gli svedesi Perfect Plan, chiamati alla seconda prova discografica dalla etichetta Frontiers, presentano “Time for a miracle”, un lavoro di solido rock melodico nel solco del più che buono album di esordio “All Rise”.

Sin dal debutto è risultato chiaro quanto la band fosse solida ed affiatata, composta da elementi capaci, dotati ed esperti, svezzati da innumerevoli anni di militanza in cover e tribute band (circostanza, peraltro, testimoniata anche dalla non tenerissima età dei componenti).
Che nei Perfect Plan convivano due anime è confermato anche da questa seconda fatica che lascia irrisolto il dilemma sollevato da “All Rise”: la band suona AOR dopato da dosi massicce di hard rock o hard rock sedato da arrangiamenti AOR?
Ogni musicista è influenzato dalla musica e dai gruppi con cui si è formato e i Perfect Plan mostrano un bagaglio musicale davvero vasto, per cui parallelismi, similitudini e confronti con i mostri sacri di entrambi i generi si sprecano, dissuadendo da una elencazione destinata a rimanere non esaustiva.
Non tutti i musicisti hanno però la capacità di fare proprie le lezioni dei grandi, di assimilare, interiorizzare e riproporre con naturalezza stili e sonorità, aggiungendoci del proprio, di offrire un prodotto che, pur non assolutamente innovativo, sia, comunque, di spessore, gradevole, e, cosa ben più importante, non clonato.

Il nuovo album dimostra che i Perfect Plan questa capacità ce l’hanno, eccome.
Apre le danze, con un intro da rivelazione metafisica, “Time for a miracle”, squisito e serrato fregio di chitarra e tastiere su cui giganteggia la potenza vocale di Kent Hilli, impreziosito da un assolo calibrato ed efficace dell’attempato folletto Rolf Nordstrom.
La raffinata title track lascia spazio a “Better walk alone” che richiama alla memoria il meglio dell’hard rock eighties e si impone con un refrain destinato a stamparsi a fuoco nel cervello sin dal primo ascolto.
L’orecchiabilissima e briosa “Hearth of stone” introduce “Fightin to win”, “Every time we cry” e “What about love”, un trittico di pezzi in cui le attitudini AOR della band prendono il sopravvento, trittico che, sebbene impeccabilmente suonato ed interpretato, non colpisce per originalità.
L’hard rock reclama la scena in “Nobodys Fool“, introdotta da una ruffiana slide blues guitar, altro gioiellino in cui l’assolo dello spiritato Nordstrom getta benzina sul fuoco.
Atmosfere più intimistiche assumono le successive “Livin on the run“, dove, ancora una volta, la superba voce di Hill fa sfoggio di se stessa, con annesso essenziale assolo di Nordstrom, e “Just one wish” che nel testo paga dazio al manierismo romantico.

Don’t Blame it on Love Again” fornisce la giusta carica di adrenalina per affrontare con rinnovate energie la riuscitissima “Give a Little Lovin” che è impossibile ascoltare senza dimenarsi e che (cosa difficile in tempi di Covid) ti porta a desiderare di essere sotto il palco, senza mascherina e senza osservare distanza di sicurezza alcuna, a sgomitare e sudare durante un live act del gruppo.
L’ariosa e delicata “Don’t Leave me Here Alone” è una di camera di decompressione che, rallentato il battito cardiaco, ti indica con gentilezza l’uscita.

I Perfect Plan sanno chi sono, da dove vengono e dove vanno.
Il tempo del miracolo non è ancora giunto per loro, ma, credetemi, l’ora è, davvero, dannatamente vicina.

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