Recensione: To Kill to Live to Kill

Di Stefano Usardi - 24 Agosto 2018 - 9:00
To Kill to Live to Kill
Band: Manticora
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2018
Nazione:
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82

Tempo di ritorni sulle scene per i danesi Manticora che, oltre a prendere il nome da uno dei miei mostri preferiti, sono anche un gruppo nient’affatto male, capace di mescolare il power metal europeo nella sua accezione più nordica (tipo i Nocturnal Rites del periodo “Shadowland“, giusto per avere qualche coordinata in più) con un gusto per le architetture sonore più articolate e un’aggressività chitarristica che li porta a sconfinare piuttosto spesso nei territori del thrash. “To Kill to Live to Kill”, ottavo album della compagine, arriva a ben otto anni di distanza dal suo predecessore, il poderoso “Safe”, e si propone di costituire un altro centro per i miei nuovi amici, che purtroppo non hanno mai goduto di grande popolarità nonostante una qualità media nelle loro pubblicazioni decisamente alta.
Come già fatto in precedenza, anche “To Kill to Live to Kill” si presenta come parte iniziale di un concept diviso in due album, la cui conclusione dovrebbe essere pubblicata più o meno fra un annetto, basato su un racconto dell’orrore scritto dal cantante Lars F. Larsen e pubblicato qualche mesetto fa, dettaglio che potrebbe quindi giustificare l’atmosfera arcigna della proposta musicale dei nostri.

Il Concerto per piano n°1 di Tchaikovsky apre le danze, introducendo il lavoro dei nostri con la giusta enfasi ma risultando (come fin troppo spesso accade in questi casi) poco più di un’aggiunta posticcia che, per fortuna, cede velocemente terreno alla più robusta “Echoes of a Silent Scream”, che deborda dalle casse con la sua drammaticità tipicamente nordeuropea. Le chitarre si fanno subito spesse e propositive, e il profumo dei Nevermore di “The Obsidian Conspiracy” si insinua inevitabilmente sottopelle, anche per via della resa molto particolare di Lars, la cui voce pulita ma per certi versi un po’ troppo distaccata mi è comunque piaciuta ma potrebbe risultare, come peraltro accadde anche al compianto Dane, invisa a qualche ascoltatore. Ad ogni modo la canzone picchia più che bene, e se è vero che i suoni sono molto bombastici e rotondi è altrettanto vero che la parte del leone la fanno sicuramente le due chitarre che, impeccabilmente spalleggiate da una sezione ritmica agguerrita e intensa, si rivelano autrici di una prova assolutamente maiuscola. Neanche il tempo di riprendere fiato che si torna a picchiare con “Through the Eyes of the Killer – Towering over You”, in cui ad una partenza al fulmicotone segue uno svolgimento più quadrato e marziale che successivamente cede terreno a una certa vena solenne e declamatoria, già incontrata peraltro anche nella traccia precedente, che però qui si fa più pronunciata. La successiva “Katana – Awakening the Lunacy” lascia trasparire schegge di death melodico tra una sfuriata, una incursione corale e un fraseggio dal profumo cinematografico, mentre “The Farmer’s Tale Pt. 1 – The Aftermath of Indifference” rallenta i ritmi per vivere di una tensione sottile che esplode durante il ritornello. Bell’idea anche gli inserti di violino, delicati e non invadenti, che donano al pezzo una vena di romanticismo che non mi è affatto dispiaciuta. “The Devil in Lisbon” è una traccia strumentale nervosa, incalzante e frenetica ma a suo modo sognante, in cui le chitarre intrecciano melodie variegate punteggiando il loro tessuto sonoro con la giusta dose di rabbia e inquietudine. Si arriva così a “Growth”, traccia piuttosto lunga e dallo sviluppo bizzarro: melodie inquiete e sofferte si affiancano a passaggi più distesi e contemplativi e ad altri cadenzati e saltellanti, caratterizzati da un’atmosfera quasi circense, mentre col sopraggiungere della sezione solista si cambia registro di colpo, avvicinandosi a certo progressive già affrontato dai nostri in passato. Si prosegue così, con questo tira e molla, per tutti i nove minuti della canzone, innalzando progressivamente il tasso di maestosità in corrispondenza del finale. “Humiliation Supreme”, altra traccia strumentale, parte sparata dispensando enfasi e trionfalismo ad ogni piè sospinto, e nonostante si riveli poco più che un passaggio interlocutorio si lascia ascoltare e funge da ottima rampa di lancio per la successiva e più lenta “Nothing Lasts Forever”, introdotta dalle morbide note di un pianoforte. La sensazione di trovarsi dinnanzi alla ballata dell’album si rafforza di secondo in secondo, e infatti la sunnominata traccia è di sicuro la più scandita e drammatica tra quelle ascoltate finora, dominata com’è da power chord e melodie intense ma, forse, un po’ troppo cariche di pathos. Poco male, perché con la successiva “Katana – Opium”, si torna su territori più aggressivi. La canzone è una bella bastonata, inframezzata da cori tracotanti e pervasa da una tensione costante che me l’ha fatta adorare; molto bella anche la sezione solista, pulita e carica di feeling. “Through the Eyes of the Killer – Revival of the Muse that is Violence” incede inizialmente con la rabbia tipica della Göteborg dei tempi d’oro, saltellando giuliva tra furia esecutiva e magniloquenza per tutti i suoi sette minuti e mezzo, anche se personalmente l’avrei fatta durare qualcosina di meno, eliminando un paio di passaggi che ho trovato un po’ farraginosi (soprattutto nella seconda metà). Chiude l’album “The Farmer’s Tale Pt. 2 – Annihilation at the Graves”, in cui i nostri spingono sensibilmente, almeno nella prima parte, il pedale del trionfalismo battagliero, salvo cedere terreno a una certa aggressività vocale che prelude prima l’assolo e poi il ritorno alle melodie corali già incontrate in precedenza.

To Kill to Live to Kill” conferma ampiamente le qualità di un gruppo che troppo spesso è rimasto nell’ombra, ma che si dimostra capace di creare album sempre solidi e avvincenti; certo, manca la classica killer song, quella canzone che ti si stampa subito nella testa e non ne esce più, ma lo spessore delle tracce che compongono l’album non fa rimpiangere troppo questa piccola carenza. A questo punto cosa potrei aggiungere che non sia già stato detto in sede di recensione? Beh, nulla direi: dopotutto alla conclusione che si tratta di un gran bell’album e che lo consiglio caldamente ad ogni amante del power più cattivo e tirato ci eravate già arrivati, giusto?

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