Recensione: Too Mean To Die

Di Roberto Castellucci - 27 Gennaio 2021 - 8:30
Too Mean To Die
Band: Accept
Etichetta: Nuclear Blast
Genere: Heavy 
Anno: 2021
Nazione:
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72

Il periodo storico che stiamo vivendo obbliga la nostra società, “sospesa” in eterna attesa del vaccino salvatore, a trovare punti di riferimento a cui affidarsi, anche solo per esorcizzare il fastidio della clausura obbligatoria. Le forme di intrattenimento capaci di farci viaggiare con l’immaginazione sono sempre più importanti, ora che il tempo per usufruirne è aumentato per tutti. Nel mio caso il tempo libero da dedicare alla musica si è moltiplicato: dopo aver finalmente dato fondo ai dischi in arretrato, parcheggiati da mesi sugli scaffali e ancora religiosamente cellofanati, mi sono trovato ad attendere l’uscita di nuovi album come non succedeva da parecchio. E’ così che, in un momento imprecisato dell’estate 2020, mi sono accorto che gli Accept stavano pubblicando nuovo materiale a tre anni di distanza dall’apprezzato “The Rise Of Chaos”. Poco fa parlavo della necessità di individuare punti fermi…gli Accept sono uno degli esempi più brillanti di punto fermo nella storia della musica, annoverati fra i gruppi che, alla fine degli anni ’70, proponevano uno stile che qualcuno timidamente iniziava a chiamare Heavy Metal. La teoria che vede gli Accept tra i maggiori distributori di idee sonore fresche, raccolte e rielaborate da correnti come lo Speed Metal, la NWOBHM e il Thrash Metal, trova ulteriore conferma nell’appoggio incassato dal chitarrista Wolf Hoffmann in un’intervista concessa da Kirk Hammett, apparsa nel magazine tedesco Gitarre & bass nel mese di settembre 2020. Riporto per amor di cronaca la frase del chitarrista dei Metallica: Wolf Hoffmann has a huge influence on me (Wolf Hoffmann ha un enorme ascendente su di me). Non è solo la chitarra di Hoffmann ad aver avuto il ruolo di musa ispiratrice. Gli Accept sono passati alla storia negli anni ’80 per molte altre buone ragioni: lo stile musicale aggressivo, l’impiego della voce caustica e impertinente di Udo Dirkschneider, persino l’approfondimento di tematiche fino ad allora relativamente poco esplorate in ambito Heavy, come la sessualità fluida, la politica, l’apparente splendore dello star-system. Forti di un monicker accattivante, rimasto invariato negli anni anche a livello grafico, gli Accept iniziano la loro carriera alla fine degli anni ’60 e pubblicano il loro primo, omonimo album nel 1979, al quale aggiungeranno, dopo molte vicissitudini, altri 15 full-length. Il sedicesimo e ultimo album è “Too Mean To Die”, presentato da una bella illustrazione in cui un minaccioso serpente cyborg, completamente privo della carica licenziosa di certi rettili presenti sulle copertine dei Whitesnake, sembra semplicemente dare corpo alle parole del titolo: troppo cattivo per morire. Anticipato dai tre singoli “The Undertaker”, “Too Mean To Die” e “Zombie Apocalypse”, ci troviamo tra le mani il primo disco dato alle stampe senza l’apporto dello storico bassista Peter Baltes, uscito dagli Accept per passare, se così si può dire, dall’altra parte della staccionata: lo abbiamo trovato accreditato come songwriter, insieme all’altro ex-Accept Stefan Kaufmann, nell’album del 2020 targato U.D.O., “We Are One”. Il bassista, colonna portante degli Accept fin dall’omonimo disco di debutto del 1979 e ancora presente nell’ultimo “The Rise Of Chaos”, viene sostituito da Martin Motnik, attivo tra il 2003 e il 2005 con la band Death/Gothic Darkseed e tuttora parte integrante del progetto Heavy Metal melodico strumentale Code Of Perfection. Le redini del gruppo sono rimaste saldamente nelle mani dell’unico membro rimasto della formazione originale, il chitarrista Wolf Hoffmann, che nell’intervista rilasciata a Truemetal.it ci conferma come il nuovo bassista abbia scritto due brani e parti di altre canzoni in “Too Mean To Die”, dandoci l’impressione di non aver scelto il nuovo elemento con l’obiettivo di farne un semplice turnista. La sostituzione al basso non è l’unica novità in quest’ultima fatica discografica: “Too Mean To Die” è il primo disco in cui gli Accept si presentano come sestetto: assistiamo all’ingresso del chitarrista Philip Shouse, impegnato ultimamente con i progetti solisti dei due mostri sacri Ace Frehley e Gene Simmons, rispettivamente lo Spaceman e il Demon dei Kiss.

Le rivoluzioni nella line up, oltre a rendersi necessarie in caso di abbandono o licenziamento di alcuni elementi, portano spesso una ventata di aria nuova, persino nello stile delle band storiche. L’aria prodotta dagli stravolgimenti interni degli Accept non prometteva purtroppo nulla di buono nel 2020: rimane inspiegabile la decisione di scegliere come primo singolo del disco una fra le canzoni più riempitive di tutta la storia dei veterani tedeschi. “The Undertaker”, quinta traccia di “Too Mean To Die”, è un brano piatto, povero di idee e affossato da melodie ripetitive e cori poco ispirati. La canzone si trascina a fatica, accompagnata da un testo altrettanto mediocre, apparentemente privo di significato e interpretato da un Tornillo che mantiene la voce un po’ troppo sotto controllo. Tutti questi elementi fanno sì che “The Undertaker” sia l’iconica mosca bianca in un platter quasi sempre gradevole; il brano, ancora più misteriosamente, è stato arricchito da un dozzinale videoclip, caratterizzato dalla presenza di un segaligno becchino in odor di necrofilia, esteticamente a metà strada tra Alice Cooper e il Joker cinematografico del compianto Heath Ledger. Spero che i lettori più impulsivi non si siano fatti scoraggiare: il secondo estratto da “Too Mean To Die”, title-track dell’album nonché seconda traccia del lotto, è una sferzata d’energia siderurgica fulminea e divertente, in grado di rimettere gli Accept nella giusta carreggiata. Il terzo singolo “Zombie Apocalypse”, al quale tocca l’onore di aprire le danze nell’album, viene dato in pasto al pubblico il 15 Gennaio 2021, data in cui inizialmente era prevista l’uscita dell’intero disco, spostata al 29 Gennaio a causa di complicazioni dovute alla pandemia.

“Zombie Apocalypse”, scesa dal cielo per aggiustare definitivamente il tiro dopo la scottatura causata dalla sconfortante “The Undertaker”, tratta l’abusato tema dei morti viventi da un punto di vista insolito. Ultimamente tornati alla ribalta nel mondo dell’intrattenimento, gli zombi vengono paragonati alle contemporanee vittime dell’alienazione tecnologica generata da uno smodato impiego di smartphone, PC e realtà virtuale. Il testo, più che l’onnipresente The Walking Dead, ricorda il romanzo del 2006 di Stephen King, Cell, in cui un segnale elettronico diffuso in tutto il mondo attraverso i telefoni cellulari riporta gran parte dell’umanità alla barbarie. Altro che Coronavirus, è la tecnologia ad aver scatenato la vera Bestia, e il suo numero non è più 666, ma 349…va detto che non è la prima volta in cui gli Accept esplorano con piglio conservatore il dualismo tra digitale e analogico: si può andare a riprendere a questo proposito il brano “Analog Man” del precedente album, “The Rise Of Chaos”, in cui Tornillo rivendicava con orgoglio l’appartenenza a una vecchia guardia bisognosa di HI-FI e non di WI-FI. L’argomento è piuttosto gettonato ultimamente in campo musicale, col rischio da parte di musicisti e case discografiche che si faccia un po’ di confusione tra “combattere l’alienazione tecnologica” e “combattere la pirateria in ogni sua forma”. Da un lato mi riferisco, per fare un paio di esempi, non solo al testo di “Zombie Apocalypse” ma anche al significativo videoclip del brano “Noise”, estratto dall’ultimo “Human:||:Nature” dei Nightwish: entrambi sono due comprensibili e condivisibili inviti a non dimenticarsi del mondo che vive e prospera al di là degli schermi. Dall’altro lato si fa davvero molta fatica ad accettare novità come la controversa no phone policy istituita dai Tool nel tour di supporto all’ultimo “Fear Inoculum”, o i ben più spiacevoli filmati registrati dal vivo di musicisti che si permettono di prendere a calci o gettare via i telefonini di sventurati fans, rei di aver commesso il terribile affronto di voler immortalare le performance dei loro idoli senza corrispondere un’adeguata compensazione monetaria…certi artisti dovrebbero ascoltare con attenzione la terza traccia di “Too Mean To Die”, “Overnight Sensation”, per ritrovare la perduta modestia ed evitare di finire come i fenomeni del Web da un milione di like descritti nel testo.

La traccia, un solido mid-tempo che strizza più di un occhio all’Hard Rock, prende in giro tutti quei personaggi che, come dei novelli dei ex-machina, diventano nel giro di una notte sciamani infallibili senza uscire dalla loro stanzetta: forti di alte dosi di incapacità e ignoranza, guadagnano fama e potere in un lampo, senza fare né saper fare praticamente nulla. La gloria è quasi per definizione effimera, e in un mondo sempre più interconnesso la reputazione può deteriorarsi velocemente tanto quanto il ritmo delle visualizzazioni giornaliere…Il quarto brano prosegue su un binario parallelo: “No Ones Master” difende coloro che scelgono di vivere con modestia, onestamente e correttamente, con l’obiettivo di non essere schiavi né padroni di nessuno. Il ritornello infatti ripete il titolo seguito dalle parole no one slave, in un testo che invita a mantenere la propria coscienza come unica valida guida in un mondo pieno di ruffiani, paladini di un’elite di pochi fortunati al comando di milioni di esseri umani sull’orlo della povertà. La critica sociale richiede giustamente un leggero aumento dei BPM rispetto a “Overnight Sensation”: il brano risulta contemporaneamente melodico e potente, seppur leggermente malinconico. La critica alle nuove categorie umane nate con la digitalizzazione della società viene ribadita nel sesto brano dell’album, “Sucks to Be You”: anche in questo caso sentiamo con piacere melodie e ritmi tendenti all’Hard Rock, soprattutto grazie alla voce di Tornillo che in qualche momento risulta quasi indistinguibile da Brian Johnson degli AC/DC. Si prosegue con “Symphony of Pain”, brano roccioso che richiama alla lontana i Judas Priest di “Painkiller”, e che sorprende nell’assolo di chitarra con l’inserimento di un paio di citazioni pescate da opere di musica classica. Si tratta di un’abitudine consolidata per il buon Hoffmann: nell’ultimo brano dell’album “Blind Rage” del 2014, “Final Journey”, viene evocato il conosciutissimo “Mattino” di Edward Grieg, mentre in “Symphony of Pain” gli Accept omaggiano Beethoven, dedicandogli un breve medley in cui, seguendo dapprima le orme dei Rainbow di “Difficult To Cure”, reinterpretano l’Inno alla Gioia della Sinfonia n° 9 per poi proseguire con un accenno al 1° Movimento della Sinfonia n° 5. Immagino che l’opera di Beethoven piaccia parecchio a Wolf Hoffmann, considerando che già nello storico album degli Accept del 1985, Metal Heart, comparivano nitidamente nella title track le note della composizione Per Elisa. Andando avanti con le tracce di “Too Mean To Die” ci troviamo di fronte a un’altra citazione: “The Best Is Yet to Come” riprende il titolo di una ballad degli Scorpions, inserita in chiusura dell’album “Sting In The Tail” del 2010. Gli Accept utilizzano la medesima espressione idiomatica per piazzare un lento con l’obiettivo di allentare la tensione; fortunatamente il brano garantisce la necessaria varietà al platter e risulta più efficace rispetto a “The Undertaker” nel concedere agli ascoltatori un po’ di riposo. La pausa di riflessione dura comunque poco: dalle atmosfere rarefatte di “The Best Is Yet to Come” si passa a “How Do We Sleep”, nono brano del disco. Il pezzo, introdotto da toni quasi fiabeschi in stile Blind Guardian, si evolve in una cavalcata dal sapore epico, accompagnata nel ritornello da cori solenni, con la quale gli Accept ci invitano a dare battaglia per cercare di migliorare le nostre vite e mantenere gli obiettivi raggiunti da chi è venuto prima di noi. Di sicuro, per lo meno musicalmente, gli Accept non dimenticano le loro origini: alle numerose suggestioni Hard Rock disseminate nell’album si aggiungono le strofe della successiva “Not My Problem”, penultimo brano del lotto, in cui si suona un Rock ‘n’ fucking Roll che vorremmo sentire più spesso, positivamente valorizzato dall’alternanza con i ritornelli composti da ritmi e riff più tradizionalmente Heavy. La direzione cambia totalmente con l’ultima traccia di “Too Mean To Die”: “Samson and Delilah” è una conclusione strumentale dai toni orientaleggianti, in cui gli Accept inseriscono un’altra interpretazione di un brano di musica classica, stavolta il 4° Movimento della Sinfonia N. 9 “Dal Nuovo Mondo” del compositore ceco Antonìn Dvořák: più che una citazione, la melodia scelta in questa sede diventa parte integrante della seconda metà del brano, trasformandosi in un vero e proprio riff di chitarra ritmica che accompagna il lungo assolo finale.

Gli undici pezzi che compongono “Too Mean To Die” scorrono piacevolmente e garantiscono un’esperienza indubbiamente gradevole; ci si deve soltanto ricordare di maneggiare con la dovuta cura la deludente “The Undertaker”, sempre tenendo a mente che abbiamo tra le mani un disco di transizione, scritto da una formazione profondamente stravolta dall’addio del bassista Peter Baltes e dall’introduzione di una terza chitarra. La produzione del disco, come per tutti gli album degli Accept a partire da “Blood of the Nations” del 2010, è stata affidata al fedele Andy Sneap, professionista il cui palmares di produzioni di successo richiederebbe un articolo a parte. Nonostante le restrizioni da Covid e buona parte del lavoro svolto “a distanza”, come lo stesso Sneap ha rivelato durante alcune interviste nell’estate del 2020, la qualità complessiva dei suoni si attesta su un livello decisamente alto, contribuendo a rendere godibile un lavoro che, a conti fatti, dimostra di essere mezzo gradino al di sotto del penultimo “The Rise Of Chaos” e leggermente più distante dal precedente ottimo “Blind Rage”. Ai Nostri sei maniscalchi va comunque riconosciuto di essere stati capaci di soddisfare quella fame di Metallo Pesante, onesto e senza troppi fronzoli, sempre presente nell’animo dei fans di ogni età. Buon ascolto!

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