Recensione: Torn Between Dimensions

Di Fabio Quattrosoldi - 4 Ottobre 2005 - 0:00
Torn Between Dimensions
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2005
Nazione:
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76

Ci sono molti modi di fare fusion, cioè di fondere background musicali diversi in un amalgama che contempli tutti i caratteri dei generi originari pur essendo una cosa ben distinta. C’è chi parte dal jazz, per poi contaminare ritmi latini e primitivi, e penso a Dave Weckl, c’è chi parte dal jazz e da esso si allarga al blues e al rock, e penso a Steve Smith e Frank Gambale, chi dal blues al jazz e allora ci sono i vari Greg Howe e Dennis Chambers, chi, pur mantenendosi su percorsi tipicamente rock-metal, si guarda molto in giro perché una certa visione del concetto “musica” comincia a stargli stretta. In quest’ultima categoria ci sta piantato con tutti e due i piedi Glenn Snelwar, che, con il monicher At War With Self, prosegue la sua personale ricerca musicale iniziata con la partecipazione all’album d’esordio dei Gordian Knot. La musica proposta dal chitarrista americano si discosta di poco da quella dalla band di Sean Malone: un rock-metal intenso, emotivamente intricato (in tal senso era difficile trovare un monicher più adatto!), ma scevro da inutili complicazioni tecniche, teso allo sperimentalismo espressivo e alla fusione degli strumenti ancor prima che dei generi. Compagni di viaggio in questa avventura musicale sono Michael Marning, già spalla di Scott Mcgill (un altro che di fusion se ne intende), bassista dallo smisurato feeling, e Mark Zonder, drummer che penso goda della stima di chiunque abbia ascoltato anche per soli cinque minuti i Fates Warning.

The God Interface è l’apertura dell’album. Grandi altalene di atmosfere in corrispondenza dei pieni e vuoti della chitarra elettrica di Snelwar: quando è presente, riempie lo spettro sonoro con potenti distorsioni ed è sempre raddoppiata dalla acustica che trama le linee melodiche, quando tace giganteggiano Marning e Zonder (quando si dice che una sezione ritmica è espressiva!). La titletrack si mantiene in linea con l’opener nell’alternare pause e ripartente, con insistenti giri di pianoforte nella prima parte (l’atmosfera è un po’ alla Eye Wide Shut, di Stanley Kubrick) e buone idee solistiche anche all’acustica di Snelwar nella seconda parte.   A Gap in the Stream of Mind Part One è costruita sulle partiture di Snelwar, che manifesta le proprie doti di solista, confermando quanto sentito su Gordian Knot. Grasping at Nothing. E’ ancora la vena pianistica ad emergere, per un brano che parte acustico e termina, dopo una rabbiosa fase centrale, con le chitarre ancestrali con le quali era cominciato. La seguente Coming Home è una meraviglia di dolcezza e armonia. Impossibile da descrivere, è un brano da ascoltare non solo con le orecchie. Fa da contraltare The Event Horizon, song tesa, insistente, nervosamente elettrica, densissima nel sound fra percussioni, riverberi chitarristici e un basso martellante che non da tregua. La seconda parte di A Gap in the Stream of Mind è da incubo sonoro: dissonante e sinistra nell’incedere e negli echi chitarristico-tastieristici. Il basso di Marning riverbera psichedelico sotto ritmiche drammatiche. La metal-oriented Run e la breve A Gap in the Stream of Mind Part Three, precedono la conclusiva At War With Self, vertice espressivo dell’album e summa del magistrale utilizzo della chitarra acustica di Snelwar. Terminato l’ascolto l’impressione che si ha è che “Torn Between Dimensions” sia un flusso musicale di cinquanta minuti che avrebbe anche potuto non essere ripartito in tracce: i brani non danno punti di riferimento all’ascoltatore a causa di arrangiamenti volubili, che non ritornano mai su se stessi, che non raggiungono mai un apice lasciando un complessivo senso di incompiutezza. Poche sono le fasi solistiche ben distinte. Per scelta degli autori, i solismi sono concisi e spesso inseriti nel contesto di cambi ritmici o di transizioni melodiche. Per giunta, i brani non sono costruiti sui riff ma su complesse atmosfere che gli strumenti concorrono coralmente a creare, con gran dispiego di sovrapposizioni armoniche fra tastiere, chitarre acustiche ed elettriche. Spesso Zonder ricorre alle percussioni lasciando volutamente “sole” le ritmiche di chitarra. Aggiungo che l’atmosfera globale del lavoro è cupa e straniante, dolorosa a tratti, pur essendo intensamente melodica.

In definitiva “Torn Between Dimensions” è un disco ostico, ma personale, che si ascolta tutto di un fiato, anzi, forse fin troppo fluidamente. Una maggiore focalizzazione delle idee volta a una maggiore diversità fra i brani è necessaria per il salto di qualità. Di certo difficilmente troverete altrove soluzioni come quelle proposte in questo lavoro e se ciò può suonare allettante alle orecchie di chi, come me, ormai non si accontenta più delle solite cose, può essere una delusione per gli appassionati di fusion ipertecnica, ai quali consiglio vivamente di rivolgersi, che ne so, a uno dei vari Gambale, Hamm, Smith.

Tracklist:
1. The God Interface  
2. Torn Between Dimensions  
3. A Gap in the Stream of Mind, Part 1  
4. Grasping at Nothing  
5. Coming Home  
6. The Event Horizon  
7. A Gap in the Stream of Mind, Part 2  
8. Run  
9. A Gap in the Stream of Mind, Part 3  
10. At War With Self

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