Recensione: Transitions

Di Daniele D'Adamo - 16 Dicembre 2022 - 0:00
Transitions
Band: Arche
Genere: Doom 
Anno: 2022
Nazione:
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75

Opera Prima per gli Arche, duo finlandese nato nel 2014 ma che solo adesso riesce a pubblicare “Transitions”, oltre a un EP del 2015 (“Undercurrents”).

E. Kuismin (voce, chitarra, basso, tastiere) e V. Raittila (batteria, voce) propongono un doom metal definito funeral che, almeno a parere di chi scrive, non si accorda in pieno con la definizione appena menzionata.

Si tratta, invece, di un qualcosa di più istintivo e naturale che rifugge a ogni classificazione. Doom e basta, insomma. Semmai atmosferico, se proprio si vuole spaccare il capello in due. Doom profondo, che scava con lentezza, sempre più giù, sino a giungere ai malinconici anfratti che albergano nell’anima. Non manca la melodia, per certi versi orecchiabile (sic!), ovviamente distante anni luce dall’aggettivo catchy, indispensabile per indurre nella mente il giusto stato di tristezza per assorbire ogni nota del full-length.

Sono solo tre le canzoni che compongono il full-length stesso, la prima delle quali, ‘Reverential Silence’, nel suo lungo srotolarsi nel pavimento delle emozioni, ammanta l’etere di una languida, carezzevole, diffusa malinconia. Il roco growling di Kuismin scuote l’atmosfera sì da consentire alla musica di attraversare intatta le molecole nel suo cammino verso l’orecchio. L’abile nocchiero traghetta le strofe della song in direzione del regno della stanchezza fisica e mentale, grazie all’abbattimento delle barriere di difesa psicologica dal Mondo e dalle sue immense tragedie.

A poco a poco, allora, s’innesta in chi ascolta un umore cupo, depresso, assai sensibile alle sollecitazioni esterne. Come se fosse stato scoperto il nervo dell’esistenza, o meglio della non-esistenza: giacché il ritmato e continuo susseguirsi di note e accordi conduce verso uno stato di abbattimento e di frustrazione nel quale è dolce affogare.

Il doom atmosferico che avvolge il tutto, anche e soprattutto nell’opener-track, trova pace nel suo susseguirsi con ‘Transitions’, brano che introduce un segmento strumentale eseguito con la chitarra classica e le tastiere. Oltre a essere la title-track, la traccia fa fede al suo nome staccando il filo conduttore del disco per annodarlo con uno forse meno infelice ma comunque in linea con l’idea artistica che fa da fondamenta al platter. Nella calma di un andamento mesto, alla fine, il risultato è lo stesso: sfiorare le corde dell’Io, facendo sgorgare dai gangli cerebrali lacrime calde e amare.

‘In a Solace Light’ è la terza e ultima composizione singola dell’LP. Ancora una volta viene modificato il leitmotiv per unirlo a quello di partenza. La musica assume, qui, forse, il suo momento più alto. Immaginarie vette innevate si stagliano all’orizzonte, irraggiungibili. Vette che nascondono, dietro di esse, incommensurabili altipiani ove alberga la disillusione. Disillusione per un qualcosa che dovrebbe esistere ma che invece non c’è: la gioia, la felicità, la spensierata gaiezza. I ridotti battiti del ritmo, allora, accompagnano la discesa nell’immensa voragine che funge da centro per questo altopiano. Una voragine in cui precipitare, ben consci che il lato vero della vita è solo questo.

Quello narrato dai Nostri.

Forse “Transitions” non sarà il massimo dell’originalità, però il suo compito lisergico lo svolge egregiamente. Chi ama usufruire della potenza della musica per proiettare nell’immaginario visioni sulle quali declinare il capo in segno di resa avrà il suo pane. Resa dalla resistenza all’orrore che permea ogni atomo dell’Universo. Chi non ama questo tipo di sensazioni, invece, troverà comunque un album da ascoltare comunque, magari quando si vuole avere un sottofondo musicale morbido e delicato sui cui passeggiare.

Daniele “dani66” D’Adamo

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