Recensione: Until Death Do We Meet Again

Di Carlo Passa - 15 Settembre 2018 - 9:00
Until Death Do We Meet Again
Band: Dream Child
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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68

Quando il Nostro Fabio Vellata mi ha proposto di recensire questo disco, ho pensato all’ennesima reunion. Nello specifico, avevo pescato dalla memoria i due discreti dischi dei power-prog metaller Dream Child ed ero curioso di ascoltare nuovamente la band francese a circa vent’anni dalle ultime notizie che avevo di loro.
Lo ammetto. Non avevo seguito con attenzione le news degli ultimi tempi e qualcosa mi era sfuggito. Ma dopo alcuni minuti dell’ascolto di Until Death Do We Meet Again mi si era arrugata la fronte in una espressione tra l’incerto e l’inebetito. I Dream Child del 2018 erano molto diversi da quelli di fine anni novanta; non più un power-prog debitore di Blind Guardian e Dream Theater, ma una band fulminata da Holy Diver e sostanzialmente clone delle produzioni soliste di Ronnie James Dio.
Informatomi sui fatti, ho risolto facilmente l’arcano, scoprendo la mia ignoranza: i Dream Child del 2018 sono una band nuova, frutto dell’incontro tra ex compagni di Dio come Craig Goldy, Rudy Sarzo (inoltre nei Quiet Riot e con Ozzy) e Simon Wright (anche negli AC/DC), accompagnati per l’occasione da Wayne Findlay (MSG) e dal cantante Diego Valdez, già voce dei trascurabili argentini Helker.
Come spesso si dice in questi casi, le premesse sono buone, benché ciò sia dovuto più all’entusiasmo che la sola evocazione di certi nomi (e tempi) provoca nel metallaro medio che non al sussistere di reali condizioni perché si abbia tra le mani un bel disco. Purtroppo, infatti, il risultato di cotanta esperienza lascia a desiderare, gli attori limitandosi a recitare una parte che incarnano ormai da decenni e che oggi suona stantia. Insomma, siamo lontanissimi dalla freschezza compositiva minima che si deve pretendere da un prodotto che voglia dirsi di qualità. 
Non mi si fraintenda: Until Death Do We Meet Again non è brutto. Se fosse uscito nell’aprile del 1983, un mese prima di Holy Diver, sarebbe un classico. Qualora avesse anticipato Rising (1976!), sarebbe addirittura una pietra miliare. Ma è pubblicato nell’anno digitale 2018 da un gruppo di comprimari che le circostanze hanno elevato a protagonisti, senza che il talento lo consenta. Tanto per non scartare dalla strada già battuta, la scelta di affidare il microfono a Diego Valdez (che compie un lavoro egregio d’imitazione di Dio) conferma l’attitudine puramente derivativa, se non copiativa, dei Dream Child. 
Until Death Do We Meet Again suona come il disco di una cover band dei Dio; e non stupirei se dal vivo riproponesse le varie Heaven and Hell o Rainbow in the Dark. Le canzoni sono perfette, prodotte come si deve, suonate con gusto e tecnica: e, come si diceva, cantate da un imitatore davvero bravo. Ma a mancare è l’ispirazione, la genuinità e, in ultima istanza, la poesia: il tutto suona come un bellissimo compitino della ragazzina più diligente della classe, che però non è anche la più intelligente. 
Data la lunga premessa, immagino che potrete immaginare il genere suonato dai Dream Child: hard & heavy roccioso di vecchia scuola. Under the Wire è un pezzo perfetto del 1985: riffone debitore di Blackmore, bridge arioso e ritornello martellante. Scorrendo la scaletta, non incapperete i grandi sorprese. Ci sono momenti evocativi che scaturiscono in canzoni belle quadrate (You Can’t Take Me Down), mid-tempo epicheggianti (Games of Shadows, Light of the Dark, Until Death Do We Meet Again, solo per menzionarne alcune), tipiche canzoni heavy cadenzate (Playing with Fire), cavalcate figlie del blues rock (Midnight Song) e accenni quasi teatrali (One Step Beyond the Grave). 
I pezzi sono tutti validi (alcuni molto validi) e tutti eminentemente inutili. Vi piaceranno, ma li consumerete e scorderete in poco tempo. Perché mancano della sostanza di cui è fatta la buona musica, che richiede qualcosa di più della, pur eccellente, qualità compositiva qui garantita. Il voto che troverete in calce volutamente non stronca Until Death Do We Meet Again, perché semplicemente il disco non merita di essere stroncato, ma ne constata la mediocrità, che è tratto caratterizzante i Dream Child 2018. 
In sostanza, non capisco la ragione stessa d’essere di progetti come quello dei Dream Child. Potranno anche esaltare il cuore di chi ama queste sonorità (e io sono del novero), ma alla fine risultano effimeri. Pochissimi torneranno a riascoltare Until Death Do We Meet Again tra qualche anno. Holy Diver è per sempre ed è meglio non provare neppure ad imitarlo.

 

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