Recensione: Urhat

Di Manuele Marconi - 4 Ottobre 2021 - 14:30
Urhat
Band: ILLT
Etichetta: Indie Recordings
Genere: Black 
Anno: 2021
Nazione:
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60

ILLT è l’alter ego del compositore e chitarrista norvegese Roy Westad. Roy ha iniziato come chitarrista prima di affermarsi come compositore di film nel 2008. Da allora, è stato coinvolto in innumerevoli progetti cinematografici e televisivi e ha ricevuto l’Emmy norvegese per la migliore colonna sonora originale nel 2014. Nel suo album di debutto, “Urhat” (“odio antico” in norvegese), possiamo trovare un blackened death/thrash metal pesante e d’impatto, che si esprime in una durata di 35 minuti. Alla registrazione dell’album hanno partecipato alcuni nomi noti del metal: Dirk Verbeuren alla batteria (Megadeth), Speed Strid alla voce (Soilwork), così come i chitarristi Karl Sanders (Nile) e Mr.Damage (Chrome Division), un gruppetto niente male.

Varie poliritmie aprono il primo brano del lotto, “Millennial Judas”, che senza indugi aggredisce l’ascoltatore, una bella mazzata, il riff portante classicamente death con chitarre distortissime. Pezzo pieno e massiccio, ma molto pulito, sia per l’ottima produzione che per la bravura del compositore; pur non brillando per virtuosismi tecnici rimane molto catchy e dinamico. Dopo quest’inizio abbastanza travolgente siamo però introdotti in una palude di anonimato. Sì perché nei brani successivi non si riesce davvero a scorgere lo “stile” dell’artista. Abbiamo pezzi sicuramente ben suonati e prodotti perfettamente, ma nessuno di essi si fa notare per guizzi specifici, anzi. Si passa da episodi più vicini al black metal ad altri più death o thrash, con tantissimi rimandi a produzioni ben più conosciute: l’assolo in “Sons of the northern lights” ricorda molto nella sua apertura quello di “Psychosocial” degli Slipknot, il riff principale della traccia conclusiva “The end of all things” è davvero troppo uguale a quello di “Alp Man” dei Darkthrone, e l’unico pezzo che si distingue oltre alla opener, ovvero il quarto brano del lotto, non risulta comunque esente da difetti. In “Blood of the unbeliever” si parte con un incipit più black; chiaramente l’andamento death rimane, ma il bilanciamento qui è migliore rispetto ad episodi precedenti, che virano in maniera pesante verso uno o l’altro lato artistico scelto da Roy. Il brano si lascia ascoltare, ma il bridge su sonorità orientaleggianti, che dovrebbe dare quel tocco di qualità, è affascinante (pur ricordando “The Threat Is Real” dei Megadeth e “Khomaniac” degli Artillery) ma un po’ fuori contesto. Questa sezione risulta estranea non tanto riguardo il tema della canzone (gli “unbelievers” sono chiaramente gli oppositori a determinati regimi teocratici) ma rispetto alle sonorità, davvero troppo distanti dall’impianto black/death alla base.

Se aggiungi troppi ingredienti non senti alcun sapore, questo vale in cucina, ma anche in studio. Questo “Urhat” assume involontariamente l’identità di un pot pourri di idee inserite in un calderone, come se in un unico disco Roy Westad avesse voluto mettere tutto ciò che conosce e sa suonare di metal e dintorni. Ne viene fuori un mischione d’impatto ma di scarsa sostanza, produzione e session men al top non possono elevare un prodotto che non ha qualità particolari da evidenziare.

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