Recensione: V

Di Daniele D'Adamo - 2 Ottobre 2020 - 0:01
V
Band: MyGrain
Genere: Death 
Anno: 2020
Nazione:
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78

Quinto studio-album per i finlandesi MyGrain, il quale non poteva che intitolarsi “V”, se si decide di restare in un mero ambito enciclopedico. Primo atto, invece, dopo la pausa di riflessione che la band si è presa dal 2014 (“Maniac”, singolo) sino al 2018 (“III”, EP).

I Nostri masticano melodic death metal. Moderno, fresco, così com’è da intendersi, oggi, il (sotto) genere appena citato. Sì, poiché, ormai, gli echi del gothenburg metal si sono quasi del tutto affievoliti. Pochi se non nulli i richiami a quel passato dorato, pertanto, per dare vita a una foggia musicale dotata di un’autonomia praticamente totale. Certamente esistono ancora delle sacche di romantici amanti del vintage, tuttavia sta prendendo sempre più piede la seconda età del death metal melodico. Età in cui vige un assioma incrollabile: il rigoroso rispetto della propria libertà stilistica, individuabile non tanto in qualcosa che è stato, bensì in qualcosa che è.

I MyGrain rispondono appieno a questi dettami fondamentali per creare musica che abbia il valore di unicità, seppure inserita in un insieme sempre più ampio di artisti che scelgono di suonare death metal intriso, ma nemmeno troppo, di melodia. Il che comporta un rischio da azzerare nel modo più assoluto: non scivolare nel power snaturando un qualcosa che, in ogni caso, è inglobato nel metallo oltranzista. Un qualcosa che non sarà mai coniuge del mainstream, un qualcosa che non farà mai parte della colonna sonora di sottofondo che allieta, si fa per dire, gli utenti dei centri commerciali.

Il combo di Helsinki, però, scivola con classe dalle maglie della rete che intrappola gli ignavi e, con coraggio, propone una fisionomia artistica del tutto personale. Magari non originalissima ma fortemente indicativa di chi sia a eseguire le canzoni che compongono il disco. Canzoni che svelano una buona capacità di scrittura, giacché è garantita sia la varietà sia, appunto, la precisa rispondenza al timbro di fabbrica che, anche se con dolore, deve marchiare l’LP a fuoco, come un sigillo, se vuole emergere dalla media.

Non solo, il gruppo scandinavo lascia trasparire, quale elemento costitutivo della sua proposta, una notevole preparazione sia tecnica, sia artistica, individuabile con facilità e immediatezza nei gangli di tutti i brani. Il che non è una novità, restando nell’area nordeuropea, poiché, a questo punto del cammino dell’Umanità, è chiaro e lampante che nel DNA degli abitanti di tale zone vivano parecchi nucleotidi dedicati specificamente all’AOR, all’hard rock e al metal più in generale compreso, ovviamente, quello estremo.

To(mm)yboy, non a caso, percorre le sue linee vocali mischiando abilmente growling, harsh e clean vocals, mantenendo un tono mai troppo aggressivo, intonando con eccellente professionalità chorus che, a volte, sanno un pizzico di progressive. Un cantante davvero bravo, in grado di fare la differenza e di regalare alla formazione quel quid in più che la maggior parte dei frontman non hanno. Ritornelli che per esempio scoppiano di musicalità nell’hit ‘Summoned Duality’, destinati a stamparsi per lungo tempo all’interno della scatola cranica senza innescare la noia. Il livello qualitativo delle varie tracce è rilevante, e consente di dar vita a episodi allo stesso tempo complessi e facili da digerire; come ‘The Calling’ o ‘Stars Fading Black’, quest’ultima da tenere in debita considerazione per il suo scoppiettante incedere, accompagnato da synth dal sapore futuristico. Oppure song più dure e massicce, come l’opener-track ‘The Nightmare’. Da menzionare, infine, la lunga suite ‘Waves of Doom’, in cui, addirittura, emergono furibondi elementi derivati dal black metal.

Un’ulteriore dimostrazione, insomma, che il melodic death metal non è affatto morto e sepolto. Anzi.

Daniele “dani66” D’Adamo

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