Recensione: Vanishing Vision

Di Riccardo Angelini - 19 Settembre 2005 - 0:00
Vanishing Vision
Band: X-Japan
Etichetta:
Genere:
Anno: 1988
Nazione:
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81

Conosciuti solo da una ristretta cerchia di appassionati in Occidente, gli X-Japan in patria godono di una notorietà con pochi eguali. Gli anni ottanta si dirigevano verso la loro conclusione quando questi cinque ragazzi sbucarono dal nulla, ruppero gli schemi, si fecero bandiera di una concezione musicale sfacciata e spregiudicata e crearono un genere, uno stile musicale e visivo che si poteva solo capire o rifiutare, amare od odiare, senza mezze misure. Fu un successo senza precedenti, inaspettato e destinato ad aumentare vieppiù nel tempo. Singoli da un più di un milione di copie vendute, prestigiose collaborazioni con artisti di fama internazionale (il drummer dei Queen Roger Taylor, per citarne uno), svariate partecipazioni a trasmissioni televisive sulle reti nazionali, il primato di prima band giapponese a suonare al Tokyo Dome, privilegio fino al 1992 concesso solo ai più famosi musicisti stranieri. Per gli X la carriera terminerà all’apice della popolarità, non a quello dell’espressione artistica, ma il loro ricordo rimarrà indelebile nei cuori del pubblico.

Le origini

Tutto ha inizio nel 1982. Un diciassettenne Yoshiki Hayashi, da dodici anni dedito allo studio del pianoforte e da poco meno a quello della batteria, non riesce a immaginare per sé un futuro che non sia nella musica. Convince l’amico Toshimitsu Deyama ad abbandonare gli studi di medicina e a seguirlo nella sua avventura nel mondo del rock: prende così vita il due chiamato Noise, Toshi alla voce, Yoshiki per tutto il resto. L’inizio non è dei più incoraggianti: mancano le risorse necessarie a portare avanti il progetto, manca un formazione stabile per gli show dal vivo, manca chi creda nella loro idea, manca un produttore. Neppure il monicker è soddisfacente, tanto che presto verrà cambiato nell’ambiguo, e negli intenti temporaneo, X, un nome dal quale tuttavia la band non si separerà più. Dopo molti, vani tentativi, infine qualcosa si muove: nel 1986 Taiji Sawada viene a coprire in modo definitivo il ruolo di bassista, un anno più tardi il talentuoso Hideto Matsumoto (hide) si impossessa della prima chitarra. Serve un compagno, una spalla all’altezza, e Tomoaki Ishizuka (Pata) si dimostra l’uomo giusto per completare il quintetto. Ora manca solo il produttore. A Yoshiki l’iniziativa non fa difetto, fonda la Extasy Records e comincia a pubblicare i primi singoli. Di lì a poco il debutto. E’ il 1988, lo squarcio chiamato Vanishing Vision segna una nuova era per la musica del popolo di Yamato.

Lo scenario

Non che l’heavy metal non fosse già arrivato in Giappone. Loudness, Vow Wow, Seikima II e tanti altri gruppi meno noti avevano già fatto propria la lezione occidentale – europea in primis – e sfornato album di buon sano heavy metal senza troppi fronzoli, con risultati positivi e talvolta anche eccellenti. Ma gli X erano in qualche modo diversi. Influenzati prevalentemente da colossi del rock quali Queen, T-Rex e, soprattutto, Kiss, i cinque giapponesi elaborarono una proposta sorprendentemente lontana anni luce da quella delle band amate. Dei Kiss ripresero in parte il costume di truccarsi prima dei concerti, ma il loro aspetto, fatto di abiti sgargianti e appariscenti, di face painting esasperati fino a rendere androgeni i lineamenti e di capigliature bizzarre che sfidavano le leggi di gravità, era poco più di un lontano parente dell’attitudine maschilista e goliardica della band statunitense. Grezzo è il primo aggettivo che viene in mente per descrivere questo disco. E violento, melodico, sanguinario, sensuale, rabbioso, perfino teatrale. Difficile catturare in poche parole l’essenza della musica secondo Yoshiki e compagni.

L’album

Le prime note dell’intro Dear Loser possono trarre in inganno: un arpeggio di chitarra, prima, e basso, poi, inizialmente avvolto in un’atmosfera carica di mistero, che all’improvviso sfocia in un riffing oscuro e marziale, carico di una tensione inquieta, drammatica. Pochi attimi ed esplode la carica dirompente di Vanishing Vision: la title track si rivela fin dalle prime battute una cavalcata fulminante e inarrestabile, condotta dall’incalzante botta e risposta tra Toshi e cori genuinamente selvaggi; un fiume in piena che pare voler travolgere tutto e tutti. Subito si fa notare la devastante potenza della batteria di Yoshiki, giovane d’aspetto fragile e perfino effeminato fuori dal palco che dietro le pelli si trasforma in un demone folle e furioso: il basso riesce nella non facile impresa di seguirne i tempi martellanti mentre alle chitarre è assegnato il compito di coniugare potenza e melodia. Giro di chiave alla violenza nella mistica Phantom of Guilt, anche se il mirino rimane puntato su coordinate heavy: Yoshiki offre un nuovo sfoggio di classe, ma le linee vocali appaiono stavolta più forzate e meno adatte alla timbro ruvido e facile al gridato di Toshi.
Si torna su livelli più che buoni con l’arrembante Sadistic Desire, eredità del passato da compositore di hide nei Saver Tiger: Toshi si trova di nuovo su coordinate canore a lui più congeniali e lo dimostra, hide lascia tutti di stucco con un assolo da incorniciare, un refrain azzeccato e d’impatto consacra definitivamente la totale riuscita del pezzo. Una breve introduzione in inglese sbilenco conduce alla feroce Give me the Pleasure, più che una canzone un intermezzo strumentale in cui a emergere un po’ a sorpresa è il basso dell’ottimo Taiji. Una traccia breve e decisamente atipica, che a conti fatti non aggiunge molto sul piano compositivo al valore dell’album. Nuova scarica di adrenalina con l’eloquente I’ll Kill You, in cui più volte la violenza sonora finisce per sopraffare la melodia: la song più grezza e veloce del lotto, lanciata dal dinamismo della batteria e dai turbinosi riff di chitarra, una di quelle capaci dal vivo di esaltare e trascinare ogni pubblico.
Netto cambio di atmosfera con la successiva Alive. Yoshiki si trasferisce al piano e prende a prestito le prime note della Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven per mostrarci il lato più raffinato degli X, Toshi si mostra capace di gestire anche linee maggiormente ricche di melodia, indiscussa padrona del campo per i primi due minuti. Poi entrano in scena le chitarre e, soprattutto, una batteria capace di tutto ciò che le si potrebbe chiedere, protagonista di un crescendo progressivo di grande intensità. Quando gli strumenti tornano al silenzio sono passati otto minuti, ma nessuno se n’è accorto.
Penultima posizione per una delle hit storiche della band: Kurenai, nella prima versione cantata interamente in inglese, ancora spoglia degli arrangiamenti che ne faranno un capitolo imprescindibile ai concerti degli X, ma già trasudante il suo enorme potenziale. Introduzione sussurrata da un arpeggio di sapore nostalgico e da un cantato sommesso, poi un istante di totale silenzio, prima che il roboante fragore delle pelli conduca una nuova cavalcata. E’ qui che la già affiatatissima coppia hide-Pata sfodera uno dei riff più esaltanti del loro repertorio. Il chorus è ancora una volta quello giusto, il breve break di batteria di Yoshiki il tocco di classe che suggella una song da cantare gridando coi pugni al cielo. Chiusura affidata al lento Unfinished, tanto rapido nel creare un’atmosfera poetica quanto improvviso nella sua brutale conclusione. Chi si aspettava il ritornello strappalacrime, dovrà attendere ancora un anno, quando Blue Blood sancirà il definitivo successo degli X.

Ecco dunque il disco d’esordio di una delle più grandi, se non la più grande rock-band mai uscita dal paese del sol levante. Chi non ha mai avuto occasione di avvicinarsi a quella cultura, difficilmente potrà comprendere l’incomparabile influenza che gli X-Japan esercitarono sul panorama musicale locale, ma non per questo macherà di apprezzare appieno questa loro prima fatica, un disco ruvido ma non acerbo, in cui infulenze heavy, speed, thrash e prog si mescolano per gettare le basi per un futuro di grandi successi. Gli X non torneranno più così selvaggi, non avranno più una produzione così sporca, non sprigioneranno più tanta scalmanata e spontanea violenza. Questo disco risente di tutti i limiti di un primo album, eppure il suo fascino animalesco gli permetterà di conquistare tanto gli amanti della potenza quanto quelli della melodia.

Tracklist:
1. Dear Loser (2:33)
2. Vanishing Vision (6:00)
3. Phantom of Guilt (5:18)
4. Sadistic Desire (6:09)
5. Give me the Pleasure (2:57)
6. I’ll Kill You (3:20)
7. Alive (8:22)
8. Kurenai (English Version) (5:44)
9. Unfinished (1:31)

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