Recensione: Victim Of Changes

Di divino marchese - 6 Settembre 2006 - 0:00
Victim Of Changes
Band: Al Atkins
Etichetta:
Genere:
Anno: 1998
Nazione:
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60

La storia dell’Heavy Metal Rock è costellata da personaggi il cui nome è perduto nella memoria dei kidz, e le cui gesta vengono irrimediabilmente cancellate.
Sono questi, tutti coloro che in qualche modo, in tempi ormai remoti, hanno contribuito a gettare i semi dei grandi nomi del nostro genere. Non è il caso di elencarli tutti, ma uno di questi è Al Atkins.
Nel 1969 Al Atkins è stato tra i fondatori del primo nucleo di coloro che sarebbero diventati i creatori dell’HM, i Judas Priest, insieme a Bruno Stapenhill, John “Fezza” Partridge e K.K. Downing, ma la sua incostanza e la disperata ricerca di una visibilità che tardava ad arrivare lo indussero nel 1973 ad abbandonare la giovane band. La line-up subirà dei cambiamenti repentini, e sarà la fidanzata del bassista Ian Hill, sorella di Robert Halford, a proporre il fratello come nuovo vocalist della band.
Subito dopo entrerà anche il giovane promettente axeman Glenn Tipton, e i tre quarti definitivi della band madre dell’HM saranno pronti a perseguire il cammino verso la storia.
Storia che dovrebbero conoscere tutti bene, almeno spero.
In tutti questi decenni Al Atkins avrà sicuramente rimuginato a fondo sul più grave errore della sua vita, ma soltanto negli ultimi anni ha deciso di recuperare quel lontano passato di cui è soltanto un marginale ed elusivo protagonista.
Negli ultimi dieci anni Al Atkins ha inciso due album: il primo, Heavy Thoughts, presenta composizioni originali e la riproposizione di Caviar and Meths, di cui è co-autore; il secondo, Victim Of Changes, raccoglie sei composizioni dei primi Judas Priest, una cover dei Quatermass e due canzoni inedite.
Ho voluto rispondere alla mia curiosità di sentire come sarebbe stata diversa la storia della mia band preferita e dell’HM tutto se Atkins avesse mantenuto il suo posto, la curiosità di ascoltare una voce diversa, ma coperta da un alone di mitologia storica nella memoria dell’heavy music, cantare alcuni di quei capolavori che hanno dato i natali all’heavy metal.
Forse non a caso, Atkins ha raccolto con sé anche l’outsider ex drummer Dave Holland (che attualmente giace dove merita di stare!), il che mi fa maliziosamente pensare ad un’operazione piena di rancore.

Il full lenght si apre con la classica Victim Of Changes, che apparentemente mantiene le stesse caratteristiche dell’originale. La produzione è di pregevole fattura ma, a fronte di ciò, la canzone manca della tensione drammatica e decadente che possedeva in Sad Wings Of Destiny; è priva dei preziosi ricami chitarristici del duo Tipton/Downing, l’assolo è scialbo e banale, e soprattutto mancano i vocalizzi furiosi, le acrobazie vocali e l’emotività suadente e terribile dell’ugola di Halford, oltre a qualsiasi acuto. Insomma, davvero una prova non vincente.
La seconda traccia è Never Satisfied, incisa dai Priest in Rocka Rolla. Il brano inizia con un riff acustico dal gusto country-rock, che accende la voglia di sentire magari anche qualcosa di diverso da come lo conosci, ma l’ipotesi scade subito dopo nel riff storico della song. Anche qui la costante è la mediocre interpretazione di Al Atkins, se paragonata a quella ben più meritatamente famosa del Metal God. E anche il suono delle chitarre non è tra i migliori. Si perde persino la sfida tra una produzione di 32 anni fa e quella odierna in termini di coinvolgimento.
Un riff in power-chord introduce l’hard rock’n’roll-blues di Black Sheep Of The Family, cover dei Quatermass, già più convincente sia nella prestazione di Atkins che del chitarrista Paul May.
The Meltdown è una strumentale introdotta da un arpeggio d’atmosfera, in cui s’insinuano in un’ascendenza bellicosa il drumming di Dave Holland e il riffing di Paul May che in una struttura ad anello riportano, dopo l’esplosione, la song all’ambiente più sognante dell’inizio.
Il celebre riff di Winter conferma che i classici dei Judas Priest perdono molto del loro pionieristico fascino nelle versioni di Atkins, perdendo quasi tutti gli elementi che li hanno resi grandi, cioè il gusto delle due famose asce e la gloriosa voce di Halford.
Una ritmica da up-tempo hard rock caratterizza Metanoia, anch’essa strumentale, forte di un riff convincente, inserti chitarristici azzeccati e dell’ottima e versatile prestazione di Dave Holland.
Mind Conception e Holy Is The Man sono due datate composizioni della primissima incarnazione dei Judas Priest, ed erano presenti nel primo demo della band: la prima presenta chitarrismi dal gusto NWOBHM, ritmiche serrate e un assolo riuscito, discreta la prestazione di Al Atkins;
anche la seconda possiede un arrangiamento che ricorda i primi anni ottanta, un mid-tempo granitico sorretto da un chorus d’impatto e da efficaci fraseggi del chitarrista, e di quella che è forse la migliore interpretazione di Atkins dell’intero disco.
L’album si chiude con una versione completamente nuova e ri-arrangiata della breve strumentale pristiana Caviar And Meths, che qui diventa una vera e proprio canzone dotata di testo: ancora una lenta cadenza introduttiva, un riff e una struttura cangiante scartate dai Black Sabbath, un cantato d’intenzione magniloquente ed evocativa e la migliore prova di Paul May in sede d’assolo e d’inserti. L’episodio più riuscito dell’intero full lenght.
Infine una curiosità: le backing vocals acute che sentirete in alcune song sono ad opera di Andy Pyke, singer dei Marshall Law.

Questo disco può interessare principalmente a chi ama i Priest, per soddisfare la curiosità verso questa ombrosa sagoma di storia che è Atkins, ma mi rimane il dubbio feroce di un uomo che prova a lucrare su qualcosa che da troppo tempo e colpevolmente non gli appartiene, un astro spento che elemosina luce dalla più importante stella del Firmamento Heavy Metal.
Sarebbe più dignitoso crearsi una carriera, anche di nicchia, lasciandosi alle spalle errori e asti, e se dovessi attenermi alle mere re-interpretazioni dei classici estrapolati da Rocka Rolla, salvo un episodio, questo album avrebbe un voto molto basso.
Lo giudico, invece, un disco sufficiente perché scorrendolo si riescono a trovare episodi piacevoli, zone di luce convincenti, ascolti gradevoli a cui evito di dare alcuna pretesa. Spero per lui che abbia la forza e la volontà di liberarsi di quel mastodontico fantasma che si porta alle spalle; io, da parte mia, non ringrazierò mai abbastanza la sorella di Halford per aver presentato Rob alla giovane band da cui nascerà l’HM.
La storia, questa volta, non può che darmi ragione.
Marco “Divino Marchese” Priulla

Musicisti:
Al Atkins – Vocals
Dave Holland – Drums
Paul May – Guitars
Pete Emms – Bass
Andy Pyke – Backing Vocals

Tracklist:
1. Victim Of Changes
2. Never Satisfied
3. Black Sheep Of The Family
4. The Meltdown
5. Winter
6. Metanoia
7. Mind Conception
8. Holy Is The Man
9. Cavier And Meths

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