Recensione: Wallflowers

Di Vittorio Cafiero - 4 Settembre 2021 - 18:47
Wallflowers
Band: Jinjer
Etichetta: Napalm Records
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2021
Nazione:
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85

Deve essere stato difficile per una band come i Jinjer, abituata ad essere costantemente in tour da una parte all’altra del globo e lontano da casa, dover sopportare un periodo come quello del lockdown, sicuramente privo di quegli stimoli esterni così importanti per un artista. C’era la possibilità che fosse proprio il continuo variare di contesti, situazioni e di interlocutori ad arricchire la personalità artistica dei nostri e a rendere la loro scrittura ricca ed interessante. La pausa improvvisa avrebbe potuto essere deleteria e rendere la loro proposta più standard, di routine e addirittura arida. Tanta curiosità, quindi, nell’affrontare l’ascolto di “Wallflowers“, quarto album della band di Donetsk dopo “Macro” del 2019, che già aveva presentato una crescita degna di nota e diversi accenni di possibili evoluzioni verso le più disparate direzioni. D’altro canto, rovescio della medaglia, quando sei un gruppo così giovane e così talentuoso c’è sempre il rischio di voler strafare e di perdersi in mille esperimenti e mille influenze. In sintesi, gli interrogativi erano legati da una parte alla qualità intrinseca delle nuove composizioni, dall’altra all’approccio stilistico che la band avrebbe utilizzato.

La situazione pandemica rischiava quindi di tagliare le gambe ad un gruppo in piena fase di crescita. Così non è stato e, diciamolo subito, “Wallflowers” si dimostra un centro pieno, che vede il raggiungimento della piena maturazione compositiva, arrivata davvero a livelli eccezionali in quanto a personalità, focus e solidità. Ma andiamo con ordine: ad un primissimo ascolto la nuova fatica della band di Tatiana Shmailyuk suona come un blocco unico, più pesante e monolitico. Dopodiché le varie sfumature vengono fuori. Prendiamo un pezzo come “Colossus” (nomen omen), ad esempio: in poco più di tre minuti e mezzo la band sbatte in faccia all’ascoltatore una valanga di pugni fatta musica, dove c’è pochissimo spazio per le melodie e le clean vocals dell’energica cantante ucraina e dove in alcuni frangenti si toccano livelli quasi death metal. E, di fatto, l’album è decisamente pesante, ma non solo in termini di decibel, velocità o cattiveria sonora, quanto piuttosto in termini di compattezza e concretezza. L’album è 100% Jinjer, non presenta particolari punti deboli e difficilmente non piacerà a chi ha apprezzato i precedenti lavori. Quando poi la band “si diverte” a variare un po’ la proposta, riesce a farlo alla grande. “Disclosure!” è l’esempio perfetto: oltre all’accattivante urletto iniziale di Tatiana, sembra di ascoltare gli Alice In Chains sotto steroidi. Al di là dell’iperbole, la traccia è pervasa da un flavour anni ’90 davvero interessante che dimostra ancora una volta quanto gli Ucraini siano attualmente in uno stato di grazia in termini di creatività. Dopo la più standard “Copycat“, altro brano che vale la pena menzionare è certamente “Pearls & Swine“. Nella composizione più lunga del lotto, il gruppo sfoggia le specialità della casa: melodia e brutalità che si alternano in perfetta armonia, così come fanno clean vocals e growl e proprio in questo senso colpiscono i break melodici che via via preparano agli attacchi quasi isterici di cantante e strumentisti. Cose già sentite nel “catalogo” Jinjer, ma comunque ottimamente confezionate, ancora una volta. E se “Sleep Of The Righteous” si dimostra uno dei momenti più ricchi del disco, con le solite divagazioni melodiche intervallate da break a volte nu-metal, a volte deathcore, “Wallflower“, la quasi-title track – assieme alla sopra citata “Disclosure!” –  si candida a diventare uno dei pezzi migliori della discografia della band ucraina e non esiterei a definirla la nuova “Pisces” (pezzo che ha permesso ai nostri di sfondare su Youtube con quasi 55 milioni di visualizzazioni del relativo video). Ma analizziamone la costruzione: lungo avvio soft su una base quasi jazzata che tocca nel profondo, specialmente grazie alla delicata vocalità utilizzata dalla singer: la performance, oltre che ad essere ineccepibile tecnicamente, è sentita, sofferta e sfocia nella preparazione centrale del pezzo, che aumenta progressivamente di intensità fino a trovare il suo climax nell’esplosione finale. Già un classico per la band, probabilmente. Ma il carattere dei nostri non termina con la traccia che rappresenta l’album, basti solo menzionare verso la fine “As I Boil Ice” che conferma la coerenza dello stile della band ma non risulta affatto monotona, grazie alle numerose variazioni di ritmo e atmosfera o la stessa “Mediator“, già proposta in anteprima da diverse settimane: qui è il caso di menzionare gli strumentisti della band, che, con una naturalezza disarmante (anche considerata la giovane età), danno sfoggio di abilità tecniche davvero fuori dal comune.

Tante volte si dice che è il terzo il disco di un gruppo quello che definisce il vero valore di una band. Credo che per i Jinjer valga l’eccezione, perché, pur essendosi rivelato “Macro” ottimo, è proprio questa quarta fatica “Wallflowers” quella che davvero li proietta in una dimensione superiore. Lavoro da top ten di fine anno sicuramente.

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