Recensione: War Is Over

Di Roberto Gelmi - 2 Dicembre 2017 - 10:00
War Is Over
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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80

La storia dei Von Herzen Brothers inizia a fine anni Novanta, quando tre fratelli musicisti decidono di farsi valere nel panorama rock finnico che conta. Kie von Hertzen è il chitarrista dei Don Huonot e gode già di buona fama in Finlandia; Jonne suona il bassista nella band spalla Tervomaa, mentre Mikkò preferisce sedere alla batteria negli Egotrippi e nei Lemonator, gruppi che si lascia alle spalle per cercare di farsi una vita meno stressante in India. E il subcontinente magico è centrale per la genesi dei Von Hertzen Brothers, che nascono come trio con l’intento di dar forma a pezzi che proprio Mikko inizia a scrivere in India. Il risultato del sodalizio tra fratelli è il debutto “Experience” del 2001. Kie e Jonne restano fedeli ai propri strumenti, Mikko invece, senza lasciare le pelli, si reinventa anche cantante e chitarrista ritmico. Il power trio forma una live band e propone alcuni show per promuovere il disco, ma tutto si rivela un flop, a partire dalle vendite. Tornano alle rispettive vite, ma un paio d’ani dopo i Don Huonot si sciolgono e i Von Hertzen vogliono riprovare a inventare qualcosa assieme.  Affidandosi di nuovo al songwriting di Mikko, nel 2006 ne risulta il secondo platter in studio, “Approach“, che viene accolto in modo meno tiepido. Alcune recensioni positive su testate importanti e il successo della ballad psichedelica “Kiss a Wish” iniziano a far conoscere la band. Il successo arriva con la vittoria del premio come migliore rock album finnico. Anche il terzo full-length in discografia fa faville e “Love Remains the Same” arriva al primo posto della chart finlandesi.
La band ha sane manie di grandezza e  in varie interviste cita come band di riferimento nomi come AC/DC, Yes, Kingston Wall, Led Zeppelin, Pink Floyd. Venebndo brevemente al moniker, il laeder Mikko Kaakkuriniemi spiega il co(gnome) della band ricordando che ‘”von Hertzen” in tedesco significa “dal cuore”.

That’s what we try to always keep in mind when writing or performing. We feel the music is pretty much useless, if it doesn’t come from our hearts. The point of music, any kind of music, is to create wonderful experiences that are somehow elevating and encouraging. That’s our mission. The music is our instrument.

È quello che cerchiamo sempre di tenere a mente quando scriviamo musica o suoniamo. Sentiamo che la musica è davvero inutile se non viene dal nostro cuore. La vera peculiarità della musica, di ogni tipo di musica, è di creare esperienze straordinarie che in qualche modo ci elevano e incoraggiano. Questa è la nostra missione. La musica è il nostro strumento per realizzarla.

Lecito, quindi, aspettarsi un nuovo album altrettanto pregevole.
Le danze si aprono con una lunga title-track, che impiega qualche minuto iniziale per rivelare il vero sound dei finnici: sintetizzatore, chitarre ruvide, basso corposo e una voce vicina a quella del geniale Herman Saming degli A.C.T. Il refrain è melodico e orecchiabile, nessun appunto da fare da questo punto di vista. A metà la suite torna ovattata e sembra di ascoltare la voce di Daniel Gildenlöw; anche le parti strumentali sono incisive e proggish, il finale, nemmeno a dirlo, è pirotecnico; ce ne saranno altri nel corso dell’album.
Con un simile avvio impossibile sbagliare nel prosieguo. “To the End of the World” è un pezzo sornione e con più asprezze, tanto groove e inventiva. “The Arsonist” (lett. L’incendiario), song più corta in scaletta, è un curioso mix di Yes e moderno rock infarcito di elettronica. Siamo vicini alla genialità di un gruppo proteiforme come gli statunitensi 3. Eterea e al contempo solenne la seguente “Jerusalem”, brano che per metà sembra uscita dagli anni Ottanta, per metà stupisce con la sua carica lisergica. Ma è con “Frozen Butterflies” che i Von Hartzen Brothers realizzano un istant classic d’applausi. Gli basta poco, una linea melodica con qualche abbellimento, un refrain su toni alti e la solita produzione ficcante e retrò. Difficilmente vi leverete dalle meningi il ritornello. Toni improvvisamente pacati in “Who are You?”, sembra di ascoltare gli ultimi Riverside ambient, salvo per l’esplosione sonora finale che ricorda i Frost o i Frameshift. I sei minuti di “Blindsight” sono speziati d’Oriente, scorrono che è un piacere, anche se il sound resta invariato e i virtuosismi non mancano, rasentando spesso il delirio manieristico. Ultima tripletta con due brani medi e uno lungo. Il ritmo in levare di “Long Lost Sailor” invita a un ballo sfrenato e piratesco; il lato irrequieto e cosmopolita dei nostri emerge, altresì, con “Wanderlust”, una ballad da pelle d’oca in pianissimo e rigorosamente unplugged. L’album termina con “Beyond the storm”, pezzo che sembra non decollare mai, come fosse un lungo addio sempre procrastinato.

Al netto, un album di sostanza, nel corso del quale si avverte un po’ di ripetitività nella forma canzone, ma complessivamente un buon disco prog. Tentare di proporre qualcosa d’innovativo è sempre più difficile man mano che gli anni passano, diamo atto ai Von Hertzen Brothers di star percorrendo con coerenza la strada giusta.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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