Recensione: We Are Not Your Kind

Di Daniele D'Adamo - 9 Agosto 2019 - 0:02
We Are Not Your Kind
Band: Slipknot
Etichetta:
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2019
Nazione:
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Finalmente sugli scaffali dei negozi di musica – e non – “We Are Not Your Kind”, attesissima sesta fatica discografica degli Slipknot.

La consequenzialità produttiva dei vari full-length è sempre quella, ben consolidata: lavorazione, realizzazione, promozione basata sul vedo e non vedo, uscita sul mercato, tour relativo, pausa. Quest’ultima motivata anzitutto dai progetti paralleli dei membri della band, fra cui spiccano gli Stone Sour del vocalist Corey Taylor, ma anche da fatti inerenti la line-up (morte del bassista fondatore Paul Gray nel 2010, recente disputa legale con Chris Fehn).

Ma che ha, come conseguenza immediata, l’attivazione di un meccanismo ormai consolidato teso amplificare quasi a dismisura l’aspettativa per le nuove opere: la loro completa assimilazione, la fase degli show a esse dedicate e, ultimo ma non ultimo, la nascita di un sentimento di nostalgia che, una volta digerito completamente le medesime, ricrea daccapo incertezza e ansia per la messa in opera del lavoro successivo il quale, come ormai si sa, arriverà dopo un congruo numero di anni.

Il tutto, condito con un tocco di geniale teatralità che consiste nel ripetuto cambiamento delle maschere dei componenti della band nonché del loro look. Un modus operandi perfetto, anch’esso geniale, che evita, anche, la saturazione mentale dei fan, e non solo, della band medesima: i Maggots.

Sul piano prettamente musicale gli Slipknot posseggono influenze da praticamente tutti i generi metal, che vengono metabolizzati con sapienza per dar luogo a uno stile assolutamente unico al Mondo. Talmente personale e adeso alla loro pelle, che si potrebbe definire… Slipknot metal. Cioè, se si prendesse a caso qualunque segmento, anche corto, di una qualunque loro canzone, giungerebbe immediata la risposta: «Ecco gli Slipknot!». Stile che, tuttavia, si avvicina, e molto, al death metal. I puristi storceranno il naso ma, sin dall’inizio, la loro tendenza musicale si è sempre mantenuta, con alti e bassi, nell’orbita del metallo della morte, peraltro, a parte taluni inserti o song più orecchiabili (‘Unsainted’), nemmeno troppo melodico. Certo, le divagazioni dall’ortodossia sono tante anzi tantissime ma la furibonda potenza di song quali per esempio ‘(sic)’ (“Slipknot”, 1999), ‘The Heretic Anthem’ e ‘People = Shit’ (“Iowa”, 2001), non può che derivare da un approccio fondato sulle frange più oltranziste del panorama metallico.

Il terrificante muro di suono innalzato dalle percussioni che, abbinate al drumming, formano una sezione ritmica, assieme al basso, in grado di scuoiare letteralmente la pelle, unitamente ai riff delle due chitarre calibrati con la tecnica del palm-muting, offrono a Corey Taylor una spaventosa montagna di watt sulla quale disegnare le proprie linee vocali, per uno dei sound più potenti della Storia del metal. Montagna che, in sede live, arriva a toccare vette di puro delirio sonoro che, a parere di chi scrive, non trova nessun altro, se non forse gli Slayer, in grado di vomitare sull’audience una tale pressione sonora, senza rivali.

Unici al Mondo, cioè.

E “We Are Not Your Kind” non è altro che la messa a giorno di tutto quanto sopra citato. Dal notevole spessore emotivo, dall’umore sanguigno, il disco segna la completa maturazione di una formazione dotata di grande classe, sia a livello compositivo, sia a livello esecutivo; come dimostrano durante i loro set incendiari, appunto. Tredici song, di cui tre ambient/strumentali (‘Insert Coin’, ‘Death Because of Death’, ‘What’s Next’), per una durata di oltre un’ora di musica. Tanta roba, come si usa dire oggigiorno, che ipnotizza l’ascoltatore come fa il serpente con la sua preda. Soltanto che è impossibile rimanere fermi. L’esplosivo ritmo del drumming di Jay Weinberg, il cui groove alla quattro quarti pestati è inequivocabilmente e intimamente legato alla natura Nostri, farebbe muovere e saltare anche un elefante, talmente è irresistibilmente trascinante (‘Red Flag’). La potenza in gioco è elevatissima, grazie a lavoro dirompente delle due chitarre (Mick Thomson & Jim Root), vere sputa-riff granitici, pieni, rotondi, dinamici sì da innescare, da sole, il pogo più feroce e turbolento (‘Nero Forte’, ‘Orphan’, ‘Liar’s Funeral’ – … thrash?). Inaspettatamente presente, vivo, pulsante, il lavoro del basso di Alessandro Venturella, che dona grande esuberanza al tutto (‘Nero Forte’); senza contare le micidiali bordate delle percussioni di Shawn Crahan nonché le divagazioni dei cosiddetti elementi secondari, che secondari non sono poiché contribuiscono fattivamente alla nascita e successivo sviluppo del menzionato Slipknot metal: giradischi (Sid Wilson), campionamenti e tastiere (Craig Jones).

Quello che stupisce è che, alla fine, la sola canzone deputata a essere una sicura super-hit radiofonica per via della sua aulica armonia – introdotta da delicati cori di voci femminili, nell’incipit  – è la già menzionata ‘Unsainted’, dotata di un refrain clamoroso, da leggenda, da cantare all’infinito pur abbracciando parti violentissime al calor bianco, queste devastate dalla follia dei blast-beats. Certo ci sono buoni intarsi orecchiabili in ‘Critical Darling’, per esempio, che nel ritornello ricorda un po’ il grunge di novantiana memoria. Altrimenti, la media della melodia compresa nelle tracce è davvero bassa, considerando la presenza di pezzi quali ‘Spider’ e ‘My Pain’ (ancorché morbidamente trasognante, quest’ultimo), ove regna indisturbata la dissonanza.

Anche ‘Not Long for This World’ (… heavy metal?) svolge un ruolo di approfondimento emotivo, con Taylor che mostra, nella sua interpretazione, l’enorme talento da egli posseduto, in grado di fargli abbracciare senza problemi parecchi stili canori diversi (harsh, growling, screaming, clean, …). Una fase introspettiva antitetica a quella più esplosiva, che crea movimento fra i pezzi, differenziandoli pur adeguandoli, sempre e comunque, al ridetto Slipknot metal.

Chiusura con ‘Solway Firth’, che funge da tratto di unione fra l’appena menzionata fase introspettiva e il lato più brutale e possente del combo proveniente dallo Iowa.

E qui nasce il miracolo-Slipknot: «Com’è possibile che un sound così duro, massiccio, violento, rabbioso, disarmonico, riesca a bucare i crani di milioni di persone facendo praticamente a meno delle melodie catchy?». Probabilmente non c’è una risposta logica. Si tratta, invece, di qualcosa di invisibile che attraversa tutto “We Are Not Your Kind” (nonché il resto della discografia) rendendolo irresistibilmente accattivante pur comprendendo tracce teoricamente opposte all’effetto che, invece, si ottiene. Ecco, tante volte si tira fuori il famigerato quid in più. Ebbene, in questo caso abbonda come non mai, probabilmente come in nessun’altra band che pratichi il metal estremo. Un talento raro volto a avvolgere il cervello affinché le canzoni s’innestino nei suoi gangli a perenne memoria.

Gli Slipknot sono gli Slipknot. Punto. O si adorano o si ignorano o, peggio, si odiano. Si consiglia di sfrondare la mente dai pregiudizi e di ascoltare “We Are Not Your Kind” con la massima apertura di pensiero. Si spalancherà, allora, un meraviglioso mondo, unico al Mondo, che, inevitabilmente non si potrà che amare.

Slipknot!

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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