Recensione: We Belong in the Grave

La globalizzazione del movimento metal, se da un lato può limitare la creatività di realtà locali distratte nel seguire le mode imperanti, dall’altro regala la nascita di ottime band in luoghi del tutto periferici, a testimonianza della capillarità di un fenomeno da sempre bistrattato e messo ai margini della (benpensante) società. Questo è il caso dei lituani Crypts Of Despair che, con “We Belong in the Grave“, raggiungono e tagliano il traguardo del terzo full-length in carriera.
Crypts Of Despair i quali, peraltro, sono nati nell’ormai lontano 2009, negli anni in cui, appunto, grazie anche all’esplosione di internet, il metallo pesante si allargava a macchia d’olio sul globo terracqueo. Questa lunga militanza nella culla del metal estremo, lato death, ha quindi consentito loro di svilupparsi, evolversi, progredire nei contenuti musicali natii, giungendo a un sound che si può dire perfetto per il 2025.
Il titolo del disco potrebbe indurre a pensare che essi si cimentino nell’old school death metal ma non è così. Affatto. Al contrario, il loro percorso artistico li ha portati a entrare nei territori in cui staziona una delle forme più moderne del metallo della morte, e cioè il deathcore. E di quello buono. Come detto, il tempo è stato galantuomo e ha consentito loro di raggiungere un alto livello qualitativo in materia sia di songwriting, sia di abilità esecutiva. Quest’ultima irreprensibile e allineata alle migliori realtà *-core che girano per il Mondo.
Deathcore brutale, dalla grande aggressività, a tratti violentissimo sì da sfondare con la sua forza d’urto un muro d’acciaio spesso dieci centimetri. Le due chitarre sputano difatti tremendi riff dai toni ribassati, distorti a mò di segaossa e quindi stoppati dalla tecnica del palm-muting (“Terminal Dias“). Questi, mischiati, adesi a micidiali sequenze di stop’n’go (“Undisillusioned“) e a spaventose cavalcate di blast-beats (“Obliteration of the Impure“), realizzano uno stile totalmente devastante nei suoi dettami di base. L’assenza la melodia, inoltre, rende ancora più massiccio l’impatto sonoro, portandolo agli estremi delle possibilità umane.
Ogni tanto compare qua e là qualche inserimento ambient così da inspessire l’atmosfera e l’umore dell’LP, talmente tetro e oscuro da portare con mano verso un pianeta che si può immaginare post-apocalittico, dominato dalle macchine, in cui non c’è più posto per l’Umanità. Fattispecie che fa pendere un po’ l’ago della bilancia verso l’industrial metal à la Fear Factory (“Seizures“, “Precipitous“), prese ovviamente le debite distanze dall’arte dei Maestri.
Assieme ai suoi compagni d’avventura, spicca il growling rabbioso, cattivo, profondo di Jonas Kanevičius, pure lui impeccabile nel compiere il suo lavoro disegnando linee vocali estremamente articolate, con qualche piacevole scivolata nelle harsh vocals e nel suinico inhale. Un’interpretazione ideale per costituire un tutt’uno con l’impianto prettamente musicale, al fine di generare un’erogazione di watt dai valori elevatissimi, tali di lanciare la band oltre la sfera del suono.
I brani sono, uno per l’altro, totalmente devastanti. A un primo approccio non sembra esserci una grande personalità, ad accompagnarli. Lo stile è grandioso, questo s’è capito, ma le canzono appaiono più deboli, meno forti nella loro anima compositiva. Il che non è vero, poiché non serve molto per entrare nel cuore di ciascuna per memorizzarla in ordine a successivi passaggi fra le pieghe dell’album. Viaggiare dalla title-track a “Burial of the World“, insomma, è privilegio dei timpani più allenati, in grado di sopportare, cioè, elevati decibel di intensità sonora.
Crypts Of Despair. Una gradita sorpresa in un ambiente, quello del deathcore, che trova massima diffusione negli Stati Uniti. Ben lontani dalla piccola Lettonia. Ma questo non conta. Conta “We Belong in the Grave” e quello che riesce a trasmettere: tanta, tanta, tanta potenza, erogata con classe e professionalità.
Daniele “dani66” D’Adamo