Recensione: What the Oak Left

Di Stefano Usardi - 10 Marzo 2017 - 9:29
What the Oak Left
Band: Atlas Pain
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2017
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
75

Esordio discografico per gli Atlas Pain, quartetto meneghino che a quattro anni (quasi) dalla fondazione pubblica questo “What the Oak Left”, smagliante esempio di folk sinfonico fortemente debitore (anche un po’ troppo, a dir la verità) della proposta di gruppi come Ensiferum, Turisas e, soprattutto, Equilibrium: più volte, infatti, lo spettro di “Sagas” incombe sul lavoro dei nostri baldi giovani, sia per quanto riguarda le sfarzose scelte melodiche che per ciò che concerne le atmosfere create dal gruppo. Ecco quindi che all’interno del classico folk costellato di melodie orecchiabili e dallo screaming ruvido, gli Atlas Pain inseriscono magniloquenti e trionfali innesti sinfonici dal respiro avvolgente e cinematografico in cui è possibile rintracciare un certo amore per le colonne sonore più possenti di Hans Zimmer (The Rock, il Gladiatore e Pirati dei Caraibi su tutte), punteggiando il tutto con accenni più scanzonati qua e là.

Dopo l’intro di ordinanza si parte a spron battuto con “To the Moon”, brano rapido e sfarzoso perfetto per inserire subito l’ascoltatore nella giusta atmosfera. La (relativa) malignità della voce durante la strofa viene stemperata dall’ingresso dei cori durante il ritornello, mentre il rallentamento centrale prelude un assolo semplice ma d’effetto prima del canonico botta e risposta con le tastiere che, a sua volta, traghetta verso il finale pomposo. “Bloodstained Sun” non perde tempo e inizia subito a martellare grazie a una batteria insistente, su cui tastiere e chitarre si scontrano in un infinito duello a base di melodie trionfali ed agguerrite. Anche quando i tempi rallentano per l’assolo il gruppo mantiene il timone ben saldo, procedendo dritto sulla strada del trionfalismo d’assalto e della carica battagliera. Le malinconiche note di un piano introducono “Till the Dawn Comes”, traccia più soffusa e dominata da melodie romantiche che mi hanno fatto tornare in mente i primi album degli ERA; l’incanto dura poco meno di due minuti, quanto basta al resto del gruppo per tornare in scena dopo il sonnellino e ricominciare a pestare duro al tempo di una melodia danzereccia che più canonica non si può, ma energizzata al punto giusto. Il romanticismo torna all’improvviso nella seconda parte della canzone, caricandosi di nuove accezioni più eroiche per una melodia che non sfigurerebbe durante i titoli di coda di un film fantasy.
The Storm” torna alla carica con un incedere più classicamente folk, caciarone e anthemico, che raggiunge il suo apice durante il ritornello e il crescendo centrale, pensati appositamente in vista della riproposizione dal vivo per far ballare e saltare le masse, mentre la successiva “Ironforged” punta su un’atmosfera meno enfatica e più cupa. Il trionfalismo torna a farsi sentire dalla metà della canzone in poi senza comunque raggiungere i livelli precedentemente proposti dal gruppo, ma torna a minacciare di rompere gli argini durante “The Counter Dance”, altra traccia tipicamente folk-power dai ritmi danzerecci e scanzonati ma, tutto sommato, fin troppo accademica. Le melodie fastose tornano a dominare con “Annwn’s Gate” in cui si respira, soprattutto durante la strofa, profumo di Finntroll del periodo Nattfödd. Il rallentamento centrale prelude una breve sfuriata in cui torna a farsi sentire quel respiro cinematografico a cui avevo già accennato, salvo poi intrecciarsi al tessuto della canzone per donarle profondità in vista del finale più magniloquente. “From the Lighthouse” mantiene questo respiro cinematografico grazie a tempi più scanditi e melodie più ariose; lo screaming di Samuele si sporca di growl, stemperato anche qui durante il ritornello dai cori anthemici che, pian piano, si impossessano della seconda parte del brano e traghettano l’ascoltatore verso la traccia conclusiva dell’album, la lunga Mana…ops, chiedo venia, intendevo “White Overcast Line”. Battute a parte, devo ammettere che l’impressione che ho avuto ascoltando questa lunga strumentale è stata proprio quella di avere tra le mani una sorta di tributo alla suite che conclude “Sagas”: una traccia, a tratti, fin troppo ligia ai dettami del folk sinfonico del gruppo tedesco. Ciò detto, devo ammettere altresì che lungo i suoi dodici minuti scarsi non ho avuto modo di annoiarmi: la traccia scorre splendidamente, alternando in modo organico momenti soffusi e bucolici ad altri più enfatici e trionfali, insinuando tra di esse improvvise cavalcate battagliere e sporadiche schegge di gioia musicale. Di nuovo torna il gusto per le melodie ariose ed il respiro da colonna sonora che mi fa sempre piacere trovare in una suite strumentale, soprattutto se piazzata a conclusione di un lavoro ottimamente eseguito per apporre il giusto sigillo e chiudere degnamente l’opera.

Arrivati a questo punto devo dire di essere piuttosto in difficoltà: in qualità di recensore devo sforzarmi di mantenere un profilo analitico e, pertanto, dovrei affermare che ci troviamo davanti a un prodotto forse troppo derivativo e influenzato, come detto in apertura, dal lavoro degli Equilibrium, che pecca di scarsa personalità e non aggiunge molto alla scena odierna del folk sinfonico. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. A questo punto, però, dovrei per lo stesso motivo puntualizzare che si tratta pur sempre dell’esordio discografico di un gruppo giovane e, pertanto, sarebbe giusto mostrare un certo grado di tolleranza in attesa della piena maturazione del gruppo stesso, soprattutto quando l’esecuzione del lavoro scorre, come accade qui, in modo impeccabile. Tuttavia, visto che la completa obiettività in un mondo di esseri, spero, pensanti (e quindi soggettivo per definizione, checché se ne dica in giro…) è solo un’illusione, mi limiterò semplicemente a dirvi che io adoro “What the Oak Left” e, nonostante sia effettivamente simile ad altri lavori e si perda un po’ troppo spesso in citazionismi assortiti, il risultato se lo porta a casa senza neanche pensarci troppo su, e ogni volta che finisco di ascoltarlo la proverbiale sensazione di pancia piena sopraggiunge a cullarmi nel suo caldo abbraccio (e se questo non è un motivo sufficiente per consigliarvi l’ascolto di un album non so proprio quale possa esserlo). Proprio per questa ragione sappiate che appena finirò di scrivere queste parole tornerò ad ascoltarlo, e secondo me dovreste farlo anche voi.

Ultimi album di Atlas Pain

Band: Atlas Pain
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2014
70