Recensione: Woods 5: Grey Skies and Electric Light

Di Marco Migliorelli - 1 Febbraio 2012 - 0:00
Woods 5: Grey Skies and Electric Light
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Anno: 2012
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82

A poco più di un mese dalla morte di David Gold, anima, carne e parola degli Woods of Ypres, approda alle nostre spiagge quello che è forzatamente l’ultimo capitolo, la conclusione di un viaggio lungo dieci anni. Tanti per una band aggrappata alla vita di questo Meleagro la cui fiamma ha incendiato di musica gli inverni di Windsor, di lì irraggiandosi. Pochi per i suoi trentuno, pochi per chi già filtrava tra le proprie sensibili dita le parole dei successivi capitoli, sei e sette: appena una frase questa rilasciata alle brume virtuali da Esther, la madre, che aveva rinvenuto nuovi testi fra le carte del figlio. A tanto arriva questa vita che dopo la vita di lui perpetuiamo nel web; ed allora ci si chiede ora se è possibile e giusto prescindere dalla morte nell’accostarsi a questo nuovo disco.
Se ne constata l’impossibilità, con buona pace di quell’illusorio sentimento di oggettività che poi non è altro che la brama di scoprirsi aperta, udibile e comunicante propria di ogni più porosa soggettiva.
Sarà invece il disco stesso a rispondere della giustezza di questa scelta. E ne risponderà ad ognuno di noi diversamente, secondo quello che è e sarà il nostro grado di coinvolgimento tanto nell’album in se, quanto nei confronti dell’intera storia del cantore di Windsor.

I remember December in Windsor, 2002
I remember feeling much older, than twenty-two

Last december in Windsor, è il titolo di una canzone da Woods 3. In quella cittadina dell’Ontario, in Canada, David Gold traeva già un bilancio del suo tempo. Novella di profonda introspezione la sua. Non manca l’appuntamento con se stesso e lì giunge forte dei naufragi con un bagaglio di testi e note, sullo sfondo slavato mai soffocante ma persistente di un amare spirato in immagini e destinato a filtrare una testualità più ampia e ricca, a tratti ingenua come nel generoso, prolisso Woods 4; più spesso librata verso l’espressività di un inconscio libero e concreto (come nel bellissimo Pursuit of the Sun, Allure of the earth), mai ottusamente ed improduttivamente chiuso in se stesso.
Ed è ancora dicembre, ora; quasi dieci anni dopo. Anche se ormai lontano dagli alberi della lunga Ypres Avenue, a Windsor. Caso o destino, questo è stato l’ultimo dicembre.
E’ chiaro ora, per il bene di questa sua musica: le parole sono importanti, in relazione agli altri nella misura in cui lo sono per noi stessi e non diversamente. Questa è la sostanza della sincerità e David Gold lo sapeva. Per questo “Grey Skies & Electric Light” arriva maturo al crocicchio del fato, pronto a farsi carico di un peso ben maggiore di quello che poteva pensare chi vi aveva investito senza parsimonia alcuna la propria fibra.

Scrive Dostoevskij ne “Le notti bianche” che

Quanto più siamo infelici, tanto più profondamente sentiamo l’infelicità degli altri; il sentimento non si frantuma, ma si concentra…

Ed è un’addizione di passi brevi che ci accompagna nel discorso musicale. Nemmeno un’ora. Poco rispetto ai precedenti due dischi, espansi in volute di generosità minutale, oltre l’ora, a tratti ansanti, pulsanti, altrove smarriti nella risacca di più lente introspezioni e melodiche aperture. Nella musica degli Woods of Ypres l’abisso non viene ignorato ma l’andare puro, l’attraversarlo è arricchito di una percezione di testi e musica che va oltre la mera constatazione dell’infelicità. Non ci si ferma che fra le righe al male di vivere. Come accade nell’urgenza di un autentico messaggio artistico il dolore è sempre un viatico per il trascendimento di ogni solipsismo. David in questo è riuscito: il sentimento non si è frantumato; diversamente si è concentrato nel tempo e nelle parole, fino al risultare asciutto compiuto intaglio nel più bel legno dei suoi cari alberi di Ypres.
Musicalmente si abbandonano le sonorità ravaged del black che come vento boschivo e invernale spazzava ancora le prime cime di Woods 3 (Northern Cold, Iron Grudge…), e si prosegue rimestando il prorompente e spiazzante magma sonoro del Green Album, lungo convincenti riequilibrature all’insegna dell’heavy/doom e di crepuscoli dal sapore vagamente gotico.
La voce di David cresce e incide profondamente questo suo improvviso testamento. Si muove con passi misurati, si concentra nel secondo, si fa più fonda non per questo cavernale; predilige ormai prevalentemente il cantato pulito ma con vocalizzi più lenti e questo perché sceglie di non seguire più il riffing sostenuto della strofa black-death che spesso in passato ha caratterizzato intense graffiate auricolari; ne sia memento definitivo The will to give, non l’unica, nel full-lenght d’esordio.
Quanto più rallenta, tanto più erra in solitudini questa voce e nella solitudine perviene a lucida meditazione. Eviterò un traccia a traccia, lasciando a ciascuno intatto il rinvenimento di un percorso concettuale che la sola tracklist già suggerisce, puntellata da testi non avari di lucide intuizioni e immagini ricorrenti, nell’organico di una visione che non disdegna la verticalità dell’anima. C’è una canzone che si fa emblematica di questo discorso. Travelling alone, manifesto del sound cui Gold aveva condotto il suo “legno”. Il testo concentra in se, tensivamente, melodicamente il condensato di quel lungo viaggio che nella musica s’è fatto spesso specchio della wilderness del Canada, prima ancora che elaborazione artistica spontanea del proprio vissuto.

I have searched and I have tried to find a place where I can be
I love my homeland dearly but never carved a place in society

In controcanto all’introduttiva dell’album, Career suicide:

And failure is not the end of the world, that’s just society!

Al solo potente ed imprevisto che segue l’affondo vocale di David nell’opener, Travelling Alone risponde con partiture di violino a stemperare  il rampage sonoro con cui s’annuncia l’album.
Ed è così che il volto di David è quello di Alex Supertramp. Into the wild ancor più quando nella lenta  Alternate ending:

Back On the highway, under the moon, my final moments, still wondering about you…
In the end, was there anyone to share in your joy?

Mentre la batteria si tacita nel ticchettare un battito straniero alla temporalità di tutti i quadranti algidi e ordinati della terra.

Quei nuovi testi fra le carte di David ed una prima occhiata a quelli di Woods 5 non lasciano dubbi circa la loro importanza.
Qui entriamo in un universo immaginale che torna tutto definitivamente e che tutto risale come marea e gentilmente si ritira, lasciando traccia. Non cede alle invitanti rotte sottocosta di facili governabili malinconie ed esiti scontati. Senza le parole, Grey Skies & Electric Light perde molto del suo significato.
Altra gemma in cui rilucono ancora impreziositi dall’alterità del contesto ritmi sostenuti e sfrondate di tempi ammiccanti al black, è Adora vivos, chiave di lettura di Woods 5.
Sottende il violino, immancabile, continuativo, grippante l’udito ai cieli grigi e propositivi, mentre elettriche imperversano le ritmiche e la voce inspessisce e s’arroca (in un cortocircuito ho risentito i Solefald di Necrodissey!) nel sottolineare degnamente un testo stupendo e maturo. Non abbandona la strofa la voce fonda, consapevole e scandente, e così despite of this life… nella quale I have only learned just to survive e pur senza “the evidence of God”, canta quello che ha appreso:

Adora Vivos – Our people are civilized…Love the living while they’re still alive
Adora Vivos – Our people are civilized…we shouldn’t worship the dead

…che è poi il dolce imperativo della vita di questo creativo ragazzo di trentun anni, ricordato ovunque per questo stesso attaccamento ai vivi. Ecco allora perché questo non può essere un album sul suicidio. Ed è sconvolgente e significativo come la sua morte riecheggi queste immagini e autorevolmente faccia di questo suo monito un testamento, la cui pertinenza -ad una realtà del suo cuore che rimarrà un mistero; io non sono che un interprete delle mie suggestioni-, è tanto relativa quanto potenzialmente importante!
Importante nella misura in cui ha già dato un senso alla sua morte e commuovendo a livello profondo, non solo emotivo… è più si prosegue nell’ascolto, più quella persistenza del violino muta in un brivido.
E lo sfondo? Dov’è il Canada, dove la wilderness. Lo smarrimento individuale che la cover del disco suggerisce trova eventuali risoluzioni nelle canzoni stesse.
Lampi e neve. E una cascata di note in Lightning & Snow. La luce. Torna dopo aver filtrato pulviscoli dell’immobilità di un tempo rappreso nella remota, bellissima The Looming of Dust In the Dark, intro al primo full-lenght. Così recitava:

Sunlight shines
On the clothes that lay on a chair
A desk covered in clutter
The floor covered in hair

Pursuing the sun. Se ne insegue la luce. E la luce rimane qui e ora, ma è differente. È elettrica e metafisica insieme. Ed è poi, per via di subitanei moti suggestivi, l’istante della morte, che i più affezionati avranno paventato nei secondi del crudele apprendimento del verdetto stradale, in quel maledetto dicembre innevato:

There was a crack of electric light, coming down from a darkened sky
My dreams flashed before my eyes, as they were erased from my life

La morte non è altro che the flick of the switch. Un giro d’interruttore.
Luce elettrica. Luce che alterniamo alla Luce, finché è il calore a fare la differenza.
Il calore. Serpeggia fra le architettura della vita così come modernamente intesa. Permane nell’interrogativo, “When did the city make you so cold?”
Eccole allora le due suite del disco. Dopo Silver, brano di facile intesa sulla professione d’amare e tardivo, immancabile ammiccamento alle rimembranze del precedente album.
Sette minuti. Modern Life Architecture, contemporaneità secondo Gold, crumbling, sgretolantesi sotto il peso del mondo. Introdotta da piano e batteria, sentenziali. Esponenti di una ritmicità lenta, elegante, mai fredda e marziale. La voce se ne fa interprete solenne; semina roccia e resistenza proprio dove il terreno dell’interiorità è più fragile. Il brano è ipnoticamente lungo ed è grave nell’avanzare e come distaccato.
Come considerarla?
Una breccia fatale se la si dispiega fra l’intensità di due struggenti orpelli come Alternate Ending e Finalty, incanto di quegli strumenti stanti come sfondo costante dell’album, e che nei succitati pezzi eccedono in dolce prominenza, ergendosi a palco per sola voce, o quasi.
Un preludio cittadino, ritrosamente contestuale se rapportato all’altra suite, coordinata strutturalmente alla maniera della nota The Sun Was in My Eyes, (primo full-lenght), per certo meno articolata e più lineare: Kiss my ashes goodbye. Due canzoni unificate da ineludibili richiami strofici sia testuali che musicali. Rapida nell’incedere la Part 1e trascinante il leitmotiv della chitarra, serrata dal suono corposo fino al comune denominatore del ritornello, latore di doomico rallentamento.
Chiusura infine. Intermezzo. Ed è anello di congiungimento una partitura di piano e violino embrionalmente devota alla lezione dei My Dying Bride che con più pieno cromatismo li riaccosta nell’attacco della Part 2. Così chiude il disco. Così si richiudono gli alberi on his path, in un non più definito civico di Ypres Avenue, a Windsor, in Ontario. Canada.

but no monument for me, please… I am not one of them
I didn’t need it in life, I wont need it in death

Whoa; è la chitarra di David Gold a chiudere niagaricamente in solo.

Woods 5.Grey Skies & Electric Light non è disco da compiacersi del dolore ed è coerente e lucido il messaggio per cui la morte, per quanto giustamente meditata come parte stessa di questo ciclo, non deve essere un assoluto annichilente. Semmai un interlocutore, al pari del tempo. La musica come le altre arti è in potenza strumento consapevole. L’ipotesi di un linguaggio comune. Un linguaggio cui  gli Woods of Ypres approdano in forma compiuta, con la maturità di un sound mutato rispetto alle origini ma non snaturato e convincente. Non mancano l’amarezza ed una rabbia dal fosco colore petroleato, denso nel pensare a quei testi già pronti ed ormai eternamente afoni.
Woods 5 è preludio all’afasia ed all’eterno ritorno di quanto un’anima creativa ha lasciato.
Le melodie raffinano la malinconia senza esserne prevedibilmente risucchiate. La chitarra abbandona ritmiche serrate e sporche per più ariose aperture. La voce di Gold è per il suono filo conduttore così come imprescindibilmente le parole di questo disco sono chiave di lettura dei perché della sua musica e soprattutto del mutato-maturato stile. Nitidi i suoni, sempre al picco della voce, pronti a decantare la sorte sorridente di un missaggio ben riuscito.
La parte ferale grezza, impattante e schietta che ricordiamo dai tempi del seminale, riuscitissimo EP, Against the seasons è ancora un elemento integrante. Il punto è che si  mescola ad un discorso musicale differente rispetto all’origine, né poteva essere altrimenti proprio perché Gold non ha mancato quell’ “l’appuntamento con se stesso” che è poi tappa obbligatoria per ciascuno nel ciclo del suo proprio tempo. Ed è così e in nessun altro modo che si addizionano i passi  e si procede in avanti; e la musica segue il tempo, uguale e diversa come la  mano che cerca e accorda e compone.
Dove portino è un mistero. E Ypres Avenue non è che il nome di tutti i nostri passi. E nessun luogo. È musica.

Rest in peace, David Gold.
Rest in us.

Marco “Fleba_il_fenicio” Migliorelli
 

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Tracklist:
1.”Career Suicide (Is Not Real Suicide)” (03:44)
2.”Travelling Alone” (05:04)
3.”Alternate Ending” (04:28)
4.”Lightning & Snow” (04:41)
5.”Finality” (03:55)
6.”Death Is Not An Exit” (05:10)
7.”Adora Vivos” (05:42)
8.”Silver” (04:49)
9.”Modern Life Architecture” (07:21)
10.”Kiss My Ashes (Goodbye) (Pt.1)” (05:48)
11.”Kiss My Ashes (Goodbye) (Pt.2)” (05:13)

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