Recensione: Yav

Di Gianluca Fontanesi - 22 Settembre 2014 - 19:00
Yav
Band: Arkona (Rus)
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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80

Non esistono molti margini di discussione parlando di “Yav”, settimo album dei russi Arkona: si tratta a tutti gli effetti di un buonissimo disco.
Non un capolavoro, ma ci assestiamo su livelli medio-alti, come da sempre siamo stati abituati dal combo. Il disco nulla aggiunge e nulla toglie a ciò che finora è stato fatto dall’ensemble: aspettatevi quindi le solite composizioni con minutaggi altissimi, una buona varietà di intenti (anche se inferiore rispetto alle opere precedenti) ed un’aura di inaccessibilità che fugherà la nebbia solo dopo parecchi ascolti. Bisogna essere pazienti per entrare nel mondo degli Arkona, pazienti e ascoltatori attenti; non c’è spazio qui per la superficialità e il disinteresse, né tantomeno per ogni sorta di easy listening.

Detto questo, vediamo di fare un pochino di chiarezza: Yav, Prav e Nav sono le tre parti che compongono Triglav, dio tricefalo che governa l’universo.
Yav è il nostro mondo terreno, Nav il mondo dei morti e Prav le leggi che li governano. Il concetto di Yav non esclude la magia e ammette che gli dei vivano in esso. Il disco parla appunto del misticismo e dei rituali legati alla natura presenti nel nostro mondo.
Perché un fan di vecchia data della band potrebbe di primo acchito rimanere deluso? Come detto poco fa, il disco abbassa la varietà della proposta diminuendo in maniera non drastica, ma quasi, gli inserti etnici e tradizionali in favore di partiture black atmosferiche e non. Più che su tanti aspetti e sfaccettature di un sound, “Yav” si incanala su binari praticamente unici; al fan poi l’ardua sentenza.

“Zarozhdenie (Origination)” è introdotta dall’Ohm, che presto viene raggiunto dalle tastiere e dalla band in toto con un mood prettamente black associato a un onirismo settantiano che risulta vincente.
La voce di Masha è come sempre in grado di spaziare dal clean al pulito in un batter d’occhio ed è in grado di catapultare subito l’ascoltatore al centro della narrazione. Molti qui i riferimenti al prog e all’avant garde, coi richiami al folk praticamente ridotti a zero. Non è però assolutamente un difetto, provare per credere.
La produzione dà il giusto risalto alla proposta, risultando però leggermente confusionaria nei momenti più “movimentati” dell’opera; roba di poco conto ma percettibile benissimo a un orecchio ben allenato. Veramente molto bello il finale contornato di stacchi, strumenti acustici ed un’ottima atmosfera. “Na strazhe novyh let (On Guard Of New Aeons)” sfoggia inizialmente un buon black metal old school con blast beats e inserti in 2/4; la voce maschile fa preferire quella più ragionata di Masha ma è un difetto trascurabile e di poca durata. Subentra presto il caro e vecchio folk, in grado di prendere il sopravvento e dare un gran bel valore aggiunto al pezzo con la cornamusa che tesse una trama grandiosa ed epica.
Ottimo il ponte che, ancora una volta, strizza l’occhio al prog. “Serbia” viene consegnata alla storia come il lentaccio di “Yav”: è un pezzo permeato dai synth, oscuro e cadenzato, cantato totalmente in clean e che non riesce a fare breccia fino in fondo nemmeno dopo svariati ascolti. Non stiamo parlando di un filler ma poco ci manca; sottotono comunque rispetto alle due composizioni precedenti. “Zov pustyh dereven’ (Empty Villages’ Call)” vede come ospite al violino Olli Vänskä dei Turisas; inizia in maniera acustica per poi sfuriare quasi nell’immediato in blast beat. Tonalità ovviamente alte e un quasi annunciato passaggio al cadenzato entrano nel vivo del brano: Masha alterna e sovrappone clean e growl, ecco quindi lo stacco col buon Olli in primo piano, che si rivela perfettamente riuscito e amalgamato col resto del pezzo.

Presto subentra il flauto, un ritorno all’acustico quasi ambient e la ripresa delle tonalità dominanti del disco a matrice black; il finale si perde un po’ e si arzigogola in se stesso.  “Gorod snov (City of Dreams)” è introdotta da un momento di puro folk con violino e cornamusa; il mood del pezzo è piuttosto lento, Masha canta in clean accompagnata dalla voce maschile per poi rimanere sola. Buono il ritornello che si assesta su toni onirici e sognanti. La forma canzone classica qui è mantenuta in maniera piuttosto regolare ed il pezzo si rivela buonissimo, anche se gli avrebbe giovato molto un insistere sul tema proposto come incipit.
“Ved’ma (The Witch)” vede un secondo ospite, Thomas Väänänen (ex Thyrfing), qui chiamato a duettare con Masha. Il pezzo sfoggia da subito un mood cadenzato e una buona atmosfera, culminando poi in momenti più black e furiosi. Si imprime facilmente nella testa dell’ascoltatore: possiamo tranquillamente cosiderarlo come uno degli highlight di Yav. Brano riuscitissimo.
“Chado indigo (Indigo ?hild)” inizia con una specie di monologo in lingua russa e il pianoforte che introduce al brano vero e proprio. Qui il mood è un folk piuttosto danzereccio, che accelera, rallenta e sfuria a piacimento; gli Arkona piazzano inaspettatamente un altro vero e proprio cavallo di battaglia che, scommettiamo, dal vivo farà sfracelli.

Non ci si fa mancare nemmeno la voce di un bambino (dovrebbe essere uno dei figli di Masha); tutto funziona qui alla perfezione e la voglia di riascoltare il pezzo più e più volte rimane tanta. Semplice ma di alta scuola il ponte che conduce al finale, anch’esso qualitativamente al top. “Yav’”, la titletrack, è un bel mattoncino che supera i tredici minuti, iniziata da una voce arcigna e malefica che presto viene sostituita dai synth. Il tema si ripete in maniera ipnotica e viene sostenuto dalla doppia cassa prima del ritorno della voce in growl alternata al clean. Il pezzo è epico e magniloquente, riassume perfettamente il piglio del disco e ciò che in questa sede si vuole trasmettere: vi sono buone accelerazioni e buoni inserti etnici verso la metà, mai troppi a dire il vero. Ce li si fa bastare.
Inaspettato verso il finale, un estratto prettamente hard rock che spezza la monotonia e cancella “Yav” dal ruolo di sola comparsa. “V ob’jat’jah kramoly (Embraced By Sedition)” chiude l’opera lentamente e in maniera cupa. Sono presenti voci in scream in lontananza, una chitarra acustica e sporadici gorgheggi; non ci si discosta comunque di un millimetro dalla lunga proposta precedente che guadagna con molti ascolti ma, parimenti, potrebbe anche stufare molto presto.

“Yav” è quindi un’arma a doppio taglio, sia per gli ascoltatori navigati che per i neofiti della band. Un disco ostico, forse il più ostico degli Arkona, proprio a causa delle poche variazioni tematiche che contiene.
A voi l’ardua sentenza, ma sappiate che quest’opera è come un giro in Dark Souls 2: o vi armate di santa pazienta e tanta attenzione o voleranno improperi anche gratuiti!

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