Recensione: Zenith

Di Marco Tripodi - 19 Dicembre 2019 - 6:11
Zenith
Band: Enforcer
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2019
Nazione:
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72

Recensisco con colpevole ritardo questa quinta fatica in studio della band svedese e, prima ancora che ai lettori, devo delle scuse agli Enforcer stessi. Alla vigilia della pubblicazione di “Zenith” non vivevo l’evento con particolare trasporto ed eccitazione, il precedente “From Beyond” non mi aveva affatto ben impressionato e mi pareva che il quartetto fosse in evidente curva calante per quanto riguardava le proprie produzioni discografiche. I livelli dei vari “Into The Night” e “Diamonds” (e a suo modo anche “Death By Fire“) erano stati decisamente ridimensionati e l’imminente “Zenith” sarebbe forse arrivato a dare la svolta definitiva (in positivo o in negativo) alla carriera di questa band, che al suo esordio aveva letteralmente spazzato via la concorrenza in ambito New Wave Of Traditional Heavy Metal, inanellando una serie di album eccezionali (almeno a parere di chi scrive). Le prime reazioni e recensioni lette in merito a “Zenith” sono state assai negative ed un po’ pigramente mi ero convinto che non era neppure il caso di provarci, gli Enforcer non si stavano riprendendo. Ho recuperato l’album solo molti mesi dopo, mortificato da ciò che avevo dato per scontato, fidandomi delle prime impressioni sentite in giro. Lungi dall’essere un disco epocale, con mia grande sorpresa “Zenith” non è affatto questo tonfo urlato da più parti.

Gli Enforcer hanno fatto di meglio in carriera e “Zenith” non è il loro miglior vanto; bene, congedato con tutti gli onori monsieur Lapalisse, possiamo anche affermare che tutto ciò non rende automaticamente questi 46 minuti un’accozzaglia mediocre di canzoni. La scelta dei due singoli – corredati di relativi videoclip – secondo me non è stata felicissima. “Sail On” è un buon brano, dal flavour vagamente settantiano come impostazione, dunque piuttosto classico, di maniera; non aggiunge una virgola al repertorio della band (e all’heavy metal in generale). Gradevole, ma al quinto album la “gradevolezza” è proprio il minimo sindacale. Poi è arrivato “Regrets” e, se possibile, le cose sono precipitate. “Regrets” è una composizione ambiziosa da parte degli Enforcer, una scommessa insidiosa decisamente fuori dalle loro corde. Un po’ lacrimevole, eccedente in pathos, sostanzialmente una ballad sebbene dalle linee melodiche molto cariche, romantiche e vibranti. Se ad un primo ascolto il contraccolpo è piuttosto complicato, ripetizione dopo ripetizione il pezzo cresce moltissimo e finisce col ribaltare il pronostico, convincendo soprattutto per le linee del cantato; ma ci vuole pazienza e tanta apertura mentale per accettare un brano del genere da una band brutalmente etichettata dai più come paladina del Santo Sepolcro di Gerusalemme, senza tante sfumature di sorta.

Il disco presenta diverse sfide, due soli i pezzi veloci “Searching For You” e “Thunder In Hell“; quest’ultima paga un tributo evidente ai Manowar (potrebbe essere la “Wheels Of Fire” degli Enforcer), accento che si manifesta anche nella conclusiva “Ode To Death“. Fa un certo effetto sentire gli Enforcer scimmiottare i Manowar, considerando le ben più raffinate eco alla Angel Witch, Mercyful Fate e Riot del primo album. Per altro i Manowar sono una band pericolosa da prendere a modello, passare dal tributo alla imitazione maldestra o peggio, alla parodia, è un attimo. I Manowar in primis non riescono più (e da tempo) a proporre dei Manowar decenti, arduo che degli svedesi cresciuti a pane e NWOBHM possano farlo in scioltezza. Personalmente “Ode To Death” mi è sembrato il momento meno riuscito dell’intera track-list, va meglio con l’up-tempo di “Thunder In Hell“, se non altro assai ritmato e dinamico.

Sono tracce come “Zenith Of The Black Sun“, “The End Of A Universe” e “One Thousand Years Of Darkness” quelle nelle quali la band trova la quadra e sfodera tutto il proprio potenziale, riconciliandosi con il proprio pubblico. Ritornelli di gran classe e gusto melodico – che gli Enforcer hanno avuto sin dal primo giorno – uniti ad un mestiere magari anche un po’ ruffiano, ma che li ha sempre sostenuti nel marasma dei giovani/vecchi metaller alle prese con un sound datato, fascinoso ed antico, nella sfidante missione di renderlo attuale e non abbandonarlo ai polverosi anni ’80. In questa impresa gli Enforcer hanno sempre avuto una marcia in più di altri, insieme ai canadesi Cauldron (pure loro ultimamente persisi un po’ per strada con produzioni più fiacche). “Die For The Devil” è un’onestissima opener, nulla di apocalitticamente innovativo ma un mid-tempo arrembante, solido e di sostanza; del resto della scaletta abbiamo già detto, ad esclusione di “Forever We Worship The Dark“, brano senza infamia e senza lode, a tratti piuttosto vicino a certe atmosfere alla Gamma Ray.

Nel complesso “Zenith” si colloca ampiamente oltre la sufficienza; in mano a qualsiasi altra band sarebbe potuto essere un platter banale e un po’ qualunque, ma gli Enforcer giocano di fino, manipolando la propria formula con destrezza, stile e ricercatezza, e finendo con l’abbellire notevolmente una pattuglia di canzoni che di partenza non erano nate con la benedizione di entrare nella Hall Of Fame del Rock ‘n’ Roll. Intendiamoci, non ci entreranno neanche così ma è indubbio che con grande accortezza, guasconeria e furbizia gli Enforcer hanno saputo infondere una accattivante patina lussuosa al materiale di “Zenith“.
 

Marco Tripodi

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