Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 10)

Di Stefano Ricetti - 21 Ottobre 2011 - 0:10
Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 10)

Ritorno in grande spolvero di  Giancarlo Trombetti  con i suoi Consigli Non Richiesti otto mesi dopo l’ultima puntata.

Buona lettura, come sempre.

Steven Rich

“Rock and roll Animals”

 

Non amo ritrovarmi con gli amici quando il fulcro della serata è la gara alla scoperta della tomba del Milite Ignoto del Rock.  Mi spiego, da molto tempo ho preso le distanze dalla classica domanda: ”Ma tu li hai mai sentiti i…”? Segue nome di gruppo ignoto anche alla mamma del cantante, che non ha mai pubblicato un disco e che se lo ha fatto è stato in duecento copie per un’etichetta fallita da almeno quarant’anni e che un mese dopo la pubblicazione del disco, avendo necessità di rientrare delle spese, ha ritirato le copie dal mercato andandole a rivendere a peso di vinile. Ma una copia resta sempre in circolazione…e quella copia sta nella teca del tuo interlocutore occasionale. Sempre pronto a decantartene le lodi e le prerogative quasi sempre uniche e rare.  Già, perché in genere i veri amici non si mettono mai in competizione ed anzi, se possono, evitano la circonlocuzione odiata e al massimo entrano in argomento con discrezione. Perché la gara a chi conosce più gruppi sconosciuti a me è sempre stata sulle scatole. Eppure c’è chi pare vivere a quel solo scopo. Chi salta scuola o lavoro, dimentica moglie e figliolanza per non perdersi una convention allo scopo di acquistare dischi tanto ignoti quanto inutili che va a ricercare con un paio di “bibbie” del settore sotto braccio e che compra a qualsiasi prezzo solo se non trova alcun riferimento all’interno di quei libri.

Perché se si tratta di album recensiti o mentovati da un periodico di fama o, peggio ancora, da un tuo presunto “collega” allora proprio non val la pena di spendere il tuo denaro… Perché lo scopo è gustare l’attimo di indecisione nel tuo futuro interlocutore, il momento di smarrimento, la risposta a voce dubitativa che giunge sottovoce: “…ma sono mica quelli che…” cui rispondere con ghigno sarcastico: “No! Sono quelli capitanati da…” seguono nomi ignoti, che preludono a pezzi ignoti, con precisi riferimenti a gruppi noti. Tutti sempre nati in seguito alla formazione di quell’imperdibile gioiello del rock tanto brillante quanto sfortunato perché nessuno lo conosce o lo ha mai ascoltato. E’ la rivincita di quelli che ti schifano perché nomini sempre i medesimi gruppi, perché continui ad eccitarti ascoltando sempre le stesse canzoni, perché sei ancora convinto che al millesimo ascolto attento, una nuova nota di colore, un’emozione inattesa possano emergere.

 

Laurel Canyon

 

E’ per questo che odio profondamente dare amicizia su quella minchia di feisbuk a tipi che al primo contatto iniziano a chiederti se hai i dischi di Tizio e Caio, se ti piace Sempronio e ti cliccano “mi piace” ogni volta che ti capita di mettere un qualcosa di vagamente poco comune sulla tua bacheca. Ecco perché provo a capire in anticipo come certe serate si svolgeranno quando tra i partecipanti compaiono tizi mai visti ma riconoscibilissimi dall’occhio assatanato; ecco perché mi sfogo con i miei pallini solo quando sono in compagnia fidata. Perché io odio la competizione che, al contrario, tanto adorano alcuni noti, o sedicenti tali, artigiani della tastiera. Ma per una volta vorrei venir meno a questo mio patto di sangue con me stesso e parlare per la prima volta di un gruppo che so per certo noto a pochissimi – anzi meno! – perché a volte la sfortuna esiste davvero, perché pur di fronte a opere geniali il fato si adopera per cancellare qualsiasi traccia e  perché in realtà queste perle – seppur in misura infinitesimale – esistono davvero nell’Universo.

Fate attenzione perché queste sono forse le uniche informazioni che mai potrete reperire su questo rarissimo parto di genio…

La storia ha il suo inizio agli albori del 1966 quando Mike Nesmith era già noto per essere parte del quartetto dei Monkees; un oggetto musicalmente inesistente e messo in piedi quasi esclusivamente per dar vita a un serial televisivo statunitense; mi ricordo che, da ragazzino, qualche imprevedibile programmatore Rai ne doveva aver acquisito i diritti turbato dal successo nel paese d’origine, perché ho ancora ottima memoria delle puntate trasmesse alla metà del pomeriggio di due o tre vite fa. Ma quel che conta qui è che Nesmith aveva talento e ben prima dei Monkees, nel 1963 a Beatles quasi esordienti, aveva già tentato la scalata alla gloria senza successo. Questo prima di diventare famosissimo, ricco e attore, compositore, musicista, scrittore, uomo d’affari e autore di successi per Linda Rondstadt nonché produttore del film Repo Man. Con i primi soldi imbottati dalla serie televisiva, Mike tentò di riprendere un suo antico progetto risalente addirittura a tre anni prima: chiamato originariamente The Nesmiths, il gruppo venne re-intitolato The Angels, cosa che procurò anni luce dopo problemi ai più noti Angel perché ufficialmente il nome non venne mai dismesso. Gli Angeli erano un indescrivibile gruppo che fondeva la psichedelica dei primi Warlocks con il suono acido e blues dei Quicksilver, unito all’istinto melodico e jazzistico degli Allman di Live at Fillmore East. E non era un caso. Alle chitarre Mike aveva messo insieme i due leader dei rispettivi gruppi, John Cipollina e Duane Allman ancora non coinvolto con gli Hourglass insieme al fratello Gregg. Nesmith ne era l’eccellente cantante insieme – da non credere! – al Paul Kantner ancora indeciso se restare con Angel o scegliere i Jefferson Airplane, come poi fece da lì a pochissimo.

Ma il suono non era quello tipico della fresca era pre-Woodstock ma un aggressivo, potentissimo rock blues, psichedelico, rugginoso, violento, più simile agli attuali Gov’t Mule che ai Cream di Clapton che parevano scolarette a confronto; più tagliente dei Blue Cheer, più creativo degli Amboy Dukes, più d’impatto del gruppo che avrebbe sconvolto il rock da lì a breve, gli Zeppelin.  La leggenda narra che Page, difatti, in tour – o in studio non lo si è mai capito – venne in contatto con gli Angels finendo coinvolto in una session, registrata e che compare nel disco, che ebbe su di lui tale influenza da indurlo a re-inquadrare gli Yardbirds prima e mettere in piedi gli Zeppelin poi, proprio ricalcando quel gruppo. Page non venne citato sulla copertina per ragioni contrattuali emerse in seguito a quella registrazione che nessuno volle cancellare. Un disco tanto bello, innovativo, fresco e splendidamente composto che avrebbe dovuto fare faville, esplodere facendo dei componenti i primi miti da tramandare insieme a Beatles e Stones. Un disco che davvero precorreva i tempi a venire. Il resto era, da lì a breve, ancora da inventare.  Due lunghe suite da citare su tutto: “Evidence” quella che poi sarebbe divenuta la famosa “In memory of Elizabeth reed” e “Soul trains” in cui non è possibile non riconoscere la “Dazed and confused” di Plant/Page in embrione.  Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi…Nesmith, il giorno stesso dell’uscita del disco, venne denunciato e immediatamente perseguito dalla Screen Gems che non gli promise soltanto ma immediatamente bloccò qualsiasi suo emolumento dovutogli per la serie televisiva The Monkees, chiedendogli una penale così elevata che avrebbe potuto assommare a quanto egli avrebbe guadagnato con i cinque anni con i Monkees. Il problema erano, ovviamente, i legami legali che impedivano a Nesmith qualsiasi mossa non approvata dalla Screen Gems; e The Angels, così lontani dall’immagine che si voleva dare di lui, evidentemente lo erano.

The Monkees mostrava un quartetto pulito e divertente alle prese con situazioni da scuola media, costruito sull’immagine iniziale dei Beatles di Help!  The Angels evidenziava una natura “nera” e contenuti ambigui con riferimenti espliciti a sesso e droghe, con Nesmith che indossava una parrucca lunghissima esattamente come le prime band psichedeliche tanto odiate dal pubblico dei Monkees. Il disco – un doppio con dieci pezzi ! – venne ritirato dalla circolazione in un nulla e l’unica cosa che non fu possibile impedire fu una recensione su Rolling Stone a firma di Greil Marcus che passò un mare di guai perché aveva ingenuamente ottenuto un demo che permise al suo giornale di uscire con una mezza pagina che avrebbe potuto cambiare il corso della storia del rock. La Screen Gems, facente parte della potentissima Columbia, facendo perno sulle pagine pubblicitarie che sarebbero venute a mancare al mensile, riuscì non solo a bloccarne la distribuzione, ma ad ottenerne una riedizione, cancellando dalla faccia della terra qualsiasi riferimento a quel progetto.

 

Laurel Canyon Station

Quel che non fu possibile bloccare furono qualche centinaio di copie che, distribuite qua e là, non servirono a nessuno, dato che l’etichetta ne rinnegò la produzione e che Mike Nesmith era del tutto irriconoscibile nelle foto interne di copertina, così come gli altri, ancora non famosi, componenti del gruppo. Ora vi domando: quanti punti potrebbe valere, in un’ipotetica guerra alla ricerca del Milite Ignoto del Rock, la storia che vi ho raccontato oggi per la prima volta? E badate che solo alcuni speleologi del web potranno, forse – e dico forse – recuperare scampoli incompleti rispetto alle informazioni finali ma mai tutta la storia così come ve l’ho narrata. Storia che ho ricevuto tramandata per via orale e diretta solo perché un mio più anziano amico, tuttora residente a Laurel Canyon, Los Angeles, fu l’assistente ingegnere del suono di quel disco di cui, un Natale di oltre trent’anni or sono, come ricompensa di averlo aiutato a rappacificarsi con la attuale moglie, volle regalarmi racconto e inviarmi poi un pacchetto con copia di quel vinile al ritorno a casa…aggiungendo una frase di accompagnamento…”Tanto dirlo in giro non ti servirebbe mai a niente! Nulla e nessuno potrebbero mai confermarti anche parte di quelle vicende pena la fine di qualsiasi attività professionale sul suolo degli Stati Uniti!”. E forse il monito vale ancora oggi, dato che il silenzio su questa vicenda è assoluto ed io stesso avrei i miei dubbi se non fossi confortato da una testimonianza in vinile, su etichetta viola ed un anonimo fronte copertina non a caso analogo all’immagine dell’indimenticato Happy Trails e con interno pressoché identico all’esterno del Live at Fillmore East  che dorme tranquillo nel settore “americano” della mia discoteca. Un album davvero e purtroppo ignoto e a questo punto dimenticato persino dai protagonisti superstiti anche se certamente strozzato da decine di vincoli contrattuali incrociati e stretti negli anni successivi da quei ragazzi quel tempo liberi che divennero poi icone del rock, ma i cui indizi e citazioni paiono per loro volontà emergere nel tempo sparse un po’ ovunque anche se nessuno potrà mai avere il piacere di assaporarne il contenuto.

A meno che non venga a casa mia o faccia il più fortunato incontro della propria vita di collezionista.
PS : In caso qualcuno si fosse domandato il perché della mia citazione dei Gov’t Mule, aggiungerò che “Mule” altro non è che uno dei brani contenuti su “The Angels”…forse la verità sta iniziando a far capolino dopo quarantacinque anni…

 

Giancarlo Trombetti