Heavy

Beppe Riva Pillars: recensione Virgin Steele (Noble Savage)

Di Stefano Ricetti - 12 Aprile 2019 - 12:30
Beppe Riva Pillars: recensione Virgin Steele (Noble Savage)

Di seguito la recensione di Noble Savage dei Virgin Steele, così come uscita originariamente all’interno delle pagine di Rockerilla numero 69 del maggio 1986, a firma Beppe Riva.

Buona lettura,

Steven Rich

 

VITGIN STEELE   ROCKERILLA   1   RIQUADRO   LITTLE

 

VIRGIN STEELE

«Noble Savage»

Cobra Records

 

Ai tempi delle contese di spada e stregoneria con i Manowar, i Virgin Steele avevano contribuito alla massima grandeur dell’epic-metal di New York, costituendo un binomio senza eguali negli anni a venire.

Poi, il lungo silenzio… i Manowar cadevano in disgrazia per i ripetuti conflitti con il «potere» discografico, da prima ancora una profonda crisi intestina aveva ossidato Virgin Steele: lo spettacolare axeman Jack Starr lasciava il gruppo per incidere il suo album-solo con l’ex-Riot Rhett Forrester e ventilava l’intenzione di sottrarre la sigla originale al resto del gruppo, serratosi attorno a David DeFeis, vocalist e tastierista che divideva con Starr la leadership degli Steele.

Onestamente DeFeis ammetteva:

“non era facile rimpiazzare un tipo come Jack, così abbiamo deciso di scegliere un chitarrista che avesse soprattutto uno stile appropriato alla nostra musica, ed il giusto feeling”

La scelta ricadeva su Edward Pursino, un vecchio amico di DeFeis che si rivelerà dotato di una stupefacente statura artistica.

Rapidamente la nuova line-up (con i soliti Joey Ayvazian alle percussioni e Joe O’Reilly al basso) incideva un demo più orientato verso il class-metal rispetto alle infatuazioni gotiche di «Virgin Steele» e «Guardians Of The Flame». La qualità era comunque impeccabile e prefigurava i nuovi Steele fra le rivelazioni dell’84. A posteriori è sorprendente sbalorditivo accorgersi che perle come «Where Are You Running To» ed «Obsession» non abbiano trovato posto sul nuovo album «Noble Savage». La storia della terza Steele-saga è stata molto travagliata. Difficoltà nel reperire un contratto hanno indotto la band newyorkese ad accordarsi con una piccola etichetta di Toronto, Maze Records, che annunciava il nuovo Virgin Steele per il marzo ’85.  Invece la band non dà più notizie di sé e l’album esce dopo un anno di mistero per un’altra indie canadese, Cobra; attenzione, si tratta di una memorabile rentrée… Quanti gruppi hanno sacrificato la loro genuina ispirazione sul freddo altare delle pressioni commerciali? Black & Blue, King Kobra, Le Mans, tanti altri… ma la catena si interrompe con l’incontaminato ritorno dall’«acciaio vergine», una denominazione tutt’altro che sprecata.

 

VIRGIN STEELE   NOBLE SAVAGE   LP

 

Virgin Steele sono assolutamente «out of vogue», ecco perché questo manipolo coraggioso non ha trovato il contratto che merita: «Noble Savage» è infatti grandioso metallo classicheggiante, epicamente suonato da grossi musicisti. Virgin Steele è l’opera lirica dell’heavy metal e con la sua voce melodrammatica, David Defeis è il suo profeta:

“sarà meglio descriverci come una progressive heavy rock band, sulla scia dei primi Queen e dei Deep Purple. Non credo che H. M. significhi chitarre schiacciasassi e urla cacciate fuori dalle tonsille. Questo è il frutto del lavaggio del cervello provocato dai Sex PistOls e dalla folle esplosione punk del ’77. Molti hanno dimenticato come si suona. Ai Virgin Steele non piace fare musica senza melodia. H.M. è più di una sensazione, ha quest’imprescindibile componente gotica, medievale”

DeFeis ribadisce questo concetto da trionfatore, poiché eroiche prove di resistenza come «Noble Savage» e «Angel Of Light» disseppelliscono l’excalibur dei primi Rainbow con una tensione descrittiva che temevamo scomparsa nell’86.

L’album è un crack, articolato su ardite strutture metalliche, arricchite dai grandiosi affreschi dipinti dalle tastiere. E la Forza, per chi ricorda il loro classico «Burn The Sun», non viene mai meno.

Il collegamento con l’opener «We Rule The Night» è spontaneo, e forse pochi sanno che DeFeis, ancora giovanissimo, è andato «a scuola» da Ritchie Blackmore, suonando per un certo periodo le tastiere nei Rainbow. Le liaison con i pionieri dell’hard inglese non sono finite, se è vero che «Thy Kingdom Come» plagia l’intro solenne di «Woman Of The Devil» dei Warhorse (puro 1970, freaksl). Per celebrare invece il contributo totalmente originale della band, eccovi il gusto forte della melodia muscolare in «The Evil In Her Eyes», mentre i nostalgici della ballata «A Cry In The Night» (dal secondo elpee) ascoltino qui «Don’t Close Your Eyes».

Un superbo come-back, che auspichiamo incoraggi l’avvento di una nuova bufera di Epic-Metal.

Beppe Riva

 

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

 

 

Elenco – con link incorporato – delle puntate precedenti:

 

CIRITH UNGOL

DEATH SS

HEAVY LOAD

MANOWAR

SAXON

JUDAS PRIEST

IRON MAIDEN

METALLICA

MOTORHEAD

MOTLEY CRUE