Folk - Viking

Live report: Enslaved + ospiti

Di Tiziano Marasco - 4 Aprile 2013 - 7:56
Live report: Enslaved + ospiti

1. Preconcerto (introduzione etnografica):

Neanche il tempo di scendere dall’autobus che mi tocca una drammatica constatazione. Anche in queste lande meridionali fa un freddo maledetto. Il languido cuore della schnitzeleuropa giace attanagliato da una morsa di gelo che non credevo possibile a sud della Moravia: tira “en vind av sorg” che fende carne, ossa ed organi interni, è nuvolo, sottozero, il Danubio è marrone alla faccia di Strauss, ma forse sarebbe più appropriato dire che il Grande Fiume è incazzato nero (se si è fatto l’ultimo mese con questo clima come me, beh, ha tutta la mia comprensione). Data l’ora decido di inforcare l’Opernring alla ricetta di uno dei piatti più tipici della cucina absburgica (il kebab) e poi mi incontro con il mio storico supporto logistico per i concerti viennesi (il Kaiser). Abbiamo ancora il tempo per intabbarrarci in una Gasthaus, laddove dissuado brevemente il Kaiser dal seguirmi al concerto (al massimo ti porto dagli Spock’s beard fra due mesi) e aggiungo una zuppa di verdure più o meno ignote al kebab di cui sopra. Dopodiché prendiamo la U6 e alla fermata giusta ci separiamo. Sta a me arrivare all’Escape da solo. In realtà è molto semplice, basta non lasciarsi intimorire dal strade il cui nome supera le 20 lettere. Entro nel luogo del misfatto dove, tanto per cambiare, stanno pompando En vind av sorg. Trovo la biglietteria, caccio i miei bravi 23 € e mi fiondo nei sotterranei.

2. Akt 1 – Schwarzkristall

Il luogo è affascinante, ottimo per un suicidio di massa mi vien da dire. Una sorta di enorme bara larga non più di otto metri, lunga più di venti, e già costipata di fumo scenico. Mi vien da pensare che se il metallaro absburgico medio è come me lo raffiguro, dopo Ethica Odini dovranno venirmi a raccogliere con l’aspirapolvere. Ad ogni modo, stanno suonando gli Schwarzkristall (cristallo nero), quattro simpatici panda cui, se mi capitasse un promo tra le mani, non esiterei a dare 40, tanto ci innaffiano di riff che erano obsoleti già ai tempi di Nemesis divina. Anche i viennesi apprezzano poco, alcuni abbandonano il sottopalco ed io inizio inesorabilmente a fendere la calca alla ricerca delle prime tre file. Più che ascoltare mi guardo attorno, noto che qualcuno fuma, noto pure che ci sono delle ragazze di discreta fattura (laddove tonnellate di piercing non rendono indecifrabile il lineamento). Il concerto finisce, avanzo ancora.

3. Akt 2. – Winterfylleth 


 

È la volta dei Winterfylleth (nome anglosassone per il mese di ottobre), vale a dire i primi mancuniani a non seguire le orme di Smiths, James e Stone roses. Quattro ragazzoni con la faccia pulita (non solo nel senso di rifiutare il facepainting) tra i quali si segnala un batterista coi baffetti da lord vittoriano. La parola agli strumenti e son brividi. Fanno un post-sludge stile Agalloch di The Mantle, molto, molto, molto, moooooooooolto più incazzato, alternano growl e clean bivocali con grazia rara, levando un volume di fuoco impressionante, pari a sedici panda trve norvegian blec me(r)dal. Fatto sta che gli asburgici attorno a me si ridestano e ben presto sento capelli estranei frustarmi la schiena. Recupero prontezza di riflessi e compostezza, che in caso di movimenti inconsulti una testata del vichingo dietro a me potrebbe frantumarmi la noce del capocollo. La noce riporterà comunque gravi lesioni dovute ad headbanging multipli, ma il vichingo non mi farà niente. Ad ogni modo scorgo finalmente il palco, e spontaneamente mi domando come faranno i 5 Enslaved a stare in quel fazzoletto di spazio. I Winterfylleth finiscono, rifletto se andare a prendere una birra ma NO, lo scopo é guadagnare almeno la seconda fila. E lì arrivo, sotto al microfono. Noto così la setlist, e noto che la batteria di Cato viene sommersa negli abissi di un palco invero assai profondo. Innanzi ad essa vengono poste le fantascientifiche attrezzature di Hedbrand: una Yamaka a 256 tasti e un’altra tastiera dai cui il perticone produrrà suoni sintetici e distorsioni, un gran casino insomma. I roadies fuoriescono e dalla porta semisocchiusa intravedo Grutle. Mi par un po’ inquartato, ma pazienza, diamoci dentro!

4. Akt 3. – ENSLAVED

 

Uno a uno i nostri salgono sul palco, parte Riitiir e si capisce subito che la magia di un live degli Enslaved non sta nella precisione. Arve Isdal spesso e volentieri brandisce la chitarra qual spadone rapsodiano, mandandola a cozzare spesso e volentieri contro l’amplificatore inchiodato al soffitto. Hedbrand è inarquato sulle sue fantascientifiche apparecchiature ed esclude totalmente dal guardo Cato. Ivar al solito rimane asettico. Grutle mi fa morire. Fa una sequela di smorfie impressionante, strabuzza gli occhi e si mordicchia il labbro come Muddy Waters tutte le volte che, ridesto dall’orgasmo dello screaming si ricorda di dover suonare il basso. Per il resto si dimena come un indemoniato. Parte Ruun, e nonostante l’estasi mistica che inevitabile prende il sopravvento, noto che qualcosa non va, ma non capisco ancora cosa. Capto difatti un odore fumereccio che sarebbe tipico nella liberale Praga, ma che mi lascia meravigliato nella castigata Vienna. Maria. Dovunque! 

 

Grutle nel frattempo intrattiene la plebe apostrofandola ora in tedesco ed ora in britannico, e discute con loro la tracklist che ormai è giunta alle orecchie di mezzo pubblico. Viene The watcher e ancora arguisco che qualcosa non va, ma ancora non capisco. Forse mi distraggono i due simpatici signori che si trovano al mio fianco, due tipi alti un metro e mezzo che molto probabilmente hanno fatto i cattivi in qualche puntata del commissario Derrick. Un terzo tipo, notando alcune mie difficoltà nel fotografare Grutle, mi divelle il fotoapparat e mi fotografa Grutle, indi mi restituisce l’aggeggio facendo il simbolo delle corna. Insomma, l’abbiamo capito, il metallaro di teutoburgo è gentile come quello italiano e decisamente più espansivo di quello slavo. Provano pure a dirmi qualcosa, loro, ma in ‘sta carneficina sonora non capirei nemmeno se parlassero la mia lingua.
? la volta di Thoughts like hammers, e stavolta anche un sordo capirebbe cosa non va. Larsen non canta. O meglio, lui, povero, spara ambo i polmoni sul microfono, ma i rapporti sono talmente sballati che gli amplificatori non riproducono la sua voce. Si sente la batteria, la chitarra di Arve, il basso e il Growl di Grutle. E bravi crucchi, vi piace l’old school, però sarebbe bello sentire i nuovi Enslaved, fin qui ho sentito Mardraum. Ad ogni modo, queste mie sensazioni sono confermate dalla successiva Ethica Odini durante la quale perdo il lume della ragione – e l’Escape mi vien dietro. Le nuove Root of the mountain e Materal confermano ampiamente l’inadeguatezza del sound system, o la deficenza del tecnico audio. Hedbrand è inesistente, e colgo i ritornelli solo perché so a memoria i testi. Dipendesse da me, lo fucilerei, perché sta rovinando un concerto davvero buono. Deve rendersene conto pure Ivar che fa cenni ad un roadie. E bravo hammurabi, hai capito che tutti i tuoi riff son andati persi. Con Convoys to nothingness le cose cambiano radicalmente, ci troviamo a galleggiare nell’occhio di un ciclone viking-psychedelico la successiva Slaget i skogen pare effettivamente un pezzo di Riitiir. 

A questo punto ci sarebbe Immigrant song (or something complitely different), e Grutle si fa uno Jägermeister prima di introdurre la band e il pezzo successivo. Non colgo il titolo, ma colgo la tastiera, sulla quale svetta il mio caratteristico “SÌ”, indice del fatto che solo io  ho capito che sta iniziando As fire swept clean the earth, classico tra i classici che primo fra tutti gode di un supporto audio forse ovattato, ma sicuramente equilibrato. E finalmente qualcosa di totalmente devastante. E finalmente qualcosa di totalmente devastante, confermata dal ricco bis di straclassici, „A song about a wolf“ e Isa. Nel marasma generale il concerto si conclude, e godendo della primafila riesco a stringere la sudaticcia mano di Grutle. E siccome sono pure innanzi allo scalino, salto sul palco e abbraccio Hedbrand Larsen, colui il quale, a mio avviso, ha metamorfizzato gli Enslaved in ciò che attualmente sono. Bravi tutti a correre dietro al frontman.

5 Constatazioni postume.

A tal punto, l’occhio mi cade sull’orologio noto con leggera inquietudine che mezzanotte è passata ed ho 10 minuti per abbrancare la U-bahn. Dato che devo raggiungere il kaiser dalla parte opposta di Vienna stabilisco sia il caso di involarmi verso l’uscita. Non ho molta voglia di sperperare 40 € in taxi, né di farmi 40 minuti a piedi con temperature subzero. Prima provo però a vedere se al tavolino del merchandise hanno, che so, Isa, Vertebrae o Below the lights. Manco uno! SOLO RIITIIR! Peste li colga! 

Naturalmente incoccio la U-Bahn e tornando indietro penso, in un ronzar d’orecchie che tuttora non m’abbandona, che la scaletta sia stata ottima, giusto mix tra i pezzi più interessanti di Riitiir e altri classici imprescindibili. L’unico neo è stato lo sciagurato tecnico audio, ma pazienza, l’onda energetica degli Enslaved si è rivelata all’altezza delle aspettative.

 

 

Setlist:

Riitiir
Ruun
The Watcher
Thoughts like hammers
Ethica Odini
Roots of the mountains
Materal
Convoys to nothingness
Slaget i skongen
As fire swept clean the earth

Fenris
Isa