Recensione: Amnio

Di Tiziano Marasco - 29 Dicembre 2013 - 21:38
Amnio
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2013
Nazione:
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75

Otto anni sono serviti ai Raving Season per giungere all’ambita tappa del primo disco di studio. Otto anni in ogni caso travagliati, durante i quali la band è stat per lungo tempo inattiva ed ha superato innumeri cambi di formazione, che hanno portato, nel 2009 all’incisione di un primo Ep. Dopodiché, altri quattro anni di attesa fino alla release di Amnio, full length  registrato sotto il sapiente consiglio della My Kingdom Music, label che rare volte sbaglia a pescare le sue band.
 
Un rapido sguardo al quintetto romano e, data la presenza di due elementi femminili veniamo indotti a credere di trovarci davanti ad un gruppo gothic. Ed anche il primo ascolto, forse distratto ma tutt’altro che piacevole, ci fa volare indietro nel tempo, a quella fine degli anni novanta in cui il gothic era un genere davvero tenebroso e strutturato e non una serie di cliché tramite i quali turbe di immemori sbarbatelli cercano una tanto facile quanto effimera scalata verso un successo che mai si concretizzerà. Amnio, si diceva, sembra portarci indietro d’una quindicina d’anni, a Widow’s Weeds e Aegis, complice forse l’algido canto di Judith, vicino per impostazione e talento a quello dell’indimenticabile Vibeke.
 
Ma non’è tutto gothic quello che è in ombra. O meglio, i nostri connazionali si rifanno ad una tradizione che solo gli Swallow the sun sembrano non aver dimenticato e che parte dai My Dying Bride e si fonde al doom metal. Dando un attento ascolto alle nove tracce di Amnio infatti emerge una musica sì decadente, sì tenebrosa, ma soprattutto lenta e cadenzata come piace al doom, con notevoli passaggi atmosferici ma pure con una opprimente sezione ritmica, che macigno su macigno costruisce composizioni soide e compatte. 
 
Come non citare poi il growl di Francesca (ebbene sì, ma dopotutto Astarte ed Arch Enemy hanno già ampiamente impartito la loro lezione), l’altra vocalist che spesso e volentieri si cimenta a declamare versi in lingua madre – e mi ci è volurto un po’ per capire come mai quei versi avessero gli aggettivi al femminile. In particolare rimane impressa Restless Rain per il growl italiano, ma va detto che non vi sono canzoni più o meno buone, tutti e nove i brani si attestano su valori decisamente alti, anche se non eccelsi.  
 
In ogni caso, un disco più che buono e valido, un tuffo nelle acque oscure del passato, di un doom gothic davvero cattivo, genuino, magniloquente e strutturato che credevamo irrimediabilmente perso. Il tutto condito da una produzione di buon livello per i giorni nostri ma che nel 1998 sarebbe stata impensabile, una produzione grazie a cui Amnio non si riduce a mero recupero filologico e fa dei Ravishing Season una band in din dei conti innovativa, matura e ben affiatata. 
 
Che dire, i Ravishing Season partono bene, e tanto basta.
 
Tiziano Vlkodlak Marasco
 
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