Recensione: Beloved Antichrist

Di Roberto Gelmi - 15 Febbraio 2018 - 10:00
Beloved Antichrist
Band: Therion
Etichetta:
Genere: Gothic 
Anno: 2018
Nazione:
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50

The sculptor’s art so proudly,
it does form a masterpiece.
You’re shaped unto perfection
from what eyes of man can see.
But with time, a magic moment
reveals from where its dark –
no human hand may ever
portray what’s in your heart

(Helena in “To Where I Weep”)

 

PREMESSA

Sedicesimo album per i Therion, nati nel 1988 come band death metal e poi diventati gruppo di culto symphonic/gothic. Dopo il concept Gothic Kabbalah del 2007, l’esperienza orchestrale a Miskolc e la parentesi baudelairiana, Cristopher Johnsson, (costretto tra l’altro a convivere con alcune ernie) torna in pompa magna con un triplo CD che mette in musica Il racconto dell’Anticristo [d’ora in poi AC] di Vladimir Sergeevic Solov’ëv. Questo autore, poco conosciuto in Italia, è congeniale per il lato esoterico dei Therion, che hanno il merito di avere riscoperto un testo vicino all’odierna temperie culturale decadente. Si poteva pensare, infatti, a un’opera di diverso genere, magari il più noto La rivolta degli angeli di Anatole France o il Vathek di William Beckford, o il classico di Bulgakov del 1967, ma l’originalità e la ricercatezza sono attributi imprescindibili del mastermind svedese.
In sostanza un racconto di una trentina di pagine – e con una trama futuristica, che vede operare un sedicente fautore dell’«uguaglianza della sazietà generale», un mago suo braccio destro, la voce di Satana in sottofondo, l’indizione di un concilio ecclesiastico, guerre, resurrezioni e un finale apocalittico –  diventa il copione da cui trarre spunto per una rock opera sui generis. Il libretto (privo di illustrazioni) presenta un’introduzione dettagliata e per ogni capitolo, oltre ai testi, alcune righe di commento per spiegare lo sviluppo dell’intricata vicenda. A voi scoprirne i dettagli, basti sapere che il concept ha luogo nel 2046 dopo che il mondo (o meglio, l’Europa, l’ultima culla di civiltà) è regredito tecnologicamente all’Ottocento. Le città chiave sono Roma, Berlino, Mosca e Gerusalemme, il concetto di nazione non ha più motivo d’essere e la religione, invece, vive un revival inaspettato. Il protagonista è un giovane studente di medicina e metafisica orfano dei genitori (morti per una malattia ignota); il suo nome è Seth Thanos (invenzione di Johnsson che accosta la divinità egizia del caos a un diminutivo di Thanatos, dio greco della morte).

Beloved Antichrist è l’opera della vita di Johnsson, il coronamento a suo dire della propria carriera; ha richiesto più di un decennio per venire alla luce e nasce come progetto da portare on stage, prima che come album in studio. Se il racconto di Solov’ëv ha un modesto sistema dei personaggi, qui troviamo invece ben 30 ruoli differenti, interpretati da cantanti d’opera. Un limite del testo, a detta di Johnsson, è infatti l’assenza di ruoli femminili, mentre in Beloved Antichrist il principale oppositore del protagonista, insieme al professor Pauli, non è papa Pietro II (Pete II), né lo starets Giovanni, ma Johanna Orsini, eroina che richiama lo spirito combattivo della biblica Giuditta e della pulzella d’Orleans. Il mastermind scandinavo, di nuovo affiancato da Per Albinsson in fase di songwriting, ha puntato su questa figura di combattente per la fede al fine d’intrecciare la sua vicenda con quella della sorella Helena, innamorata dell’AC, e con quella della madre Sophia (una studiosa di occultismo).
Ogni CD dura circa sessanta minuti e la tracklist è così frammentaria perché abbondano pezzi dal minutaggio limitato, che vanno inclusi in capitoli e scene a sé stanti. In line-up troviamo, oltre a Lori Lewis nel ruolo di Helena, Linnea Vikström, il giovane talento Erik Rosenius (nei panni di Satana), ma anche un famoso tenore svedese, tale Marcus Jupither (coinvolto grazie all’amico d’infanzia Thomas Vikström), interprete di Apollonio, l’esotico vescovo/mago al servizio dell’AC. L’album presenta pochi elementi metal, resta invece l’approccio gothic, ma si è lontani dal symphonic metal di attualità (quello bombastico di Nightwish ed Epica per intenderci). In effetti Johnsson anche con la sua Luciferian Light Orchestra ha dimostrato di volersi avvalere di un sound più caldo, con linee di basso valorizzate e un trattamento meno estremo delle chitarre. Questo cambiamento fa sì che l’uscita sia concepita per un pubblico vasto, cosa che farò storcere il naso ai fan dei Therion di vecchio corso. D’altra parte questo sembra il destino della band svedese, come si evince dalle parole del suo leader:

We need to continue to reinvent ourselves, or we will wither and die. Ever since we made our second album back in 1992, each new release has caused some fans to say we are geniuses and some to say that we betray our old fans.
(Dobbiamo continuare a reinventarci, oppure appassiremo per poi morire. Fin da quando pubblicammo il nostro secondo album, nel 1992, ogni nuova uscita ha portato alcuni fan a definirci dei geni e altri a definirci traditori dei nostri vecchi fan.)

Con queste premesse è lecito aspettarsi un altro capolavoro dalla band svedese? L’artwork in questo senso è un pessimo biglietto da visita (non si poteva puntare su una bella incisione come quella di Evangelion dei Behemoth?) e lascia presagire quello cui stiamo per andare incontro. Per rappresentare il destino di solitudine che attanaglia il protagonista durante la sua vita terrena si poteva pensare a immagini più incisive.

I TRE ATTI

Superato un intro suggestivo e insinuante che anticipa alcuni leitmotive dell’album (vedasi motivetto di clavicembalo), “Where Will You Go?” conferma le prime impressioni: l’approccio orchestrale è ridotto al minimo (si utilizzano soprattutto tastiere), in primo piano risulta il basso e la voce tenorile, supportata da cori. Il sound Therion è ben presente, ma come depotenziato, si respira aria metafisica, ma latita il piglio metal dei nostri. Con “Through Dust Through Rain” iniziano a delinearsi i primi personaggi femminili. La scena si apre al capezzale di Sophia, in punto di morte per un problema cardiaco, assistita dalle figlie. Tutto risulta criptico, si parla della necessaria unione di luce e tenebre e di una “stella infinita”. Lori Lewis canta in modo impeccabile e angelico, ci sono parti di pianoforte, violoncello e clarinetto, ma tutto resta su ritmi blandi. Le cose non migliorano più di tanto con “Signs Are Here”, dove trovano spazio le chitarre elettriche, ma l’approccio pomposo e corale risulta paradossalmente indebolente. Viene presentata la figura di Johanna, eroina positiva e profetessa che si batterà contro l’avvento dell’Anticristo. Spetta a Chiara Malvestiti (la soprano marchigiana già reclutata da Johnsson per la cornice live) interpretare questo importante ruolo. George Wyndham, presidente degli U.S.E. (United States of Europe), parla di pace nella breve “Never Again”, pezzo rock-oriented ma privo di assoli e particolari highlight. Come vera spina dorsale dell’opera, il basso pulsante di Nalle Påhlsson dà sostanza a “Bring Her Home”, scena che vede un primo accostamento oppositivo tra AC e Johanna. Trapelano momenti di grandiosità (certi vocalizzi, inserti di organo…) ma tutto resta come in uno stato crepuscolare.
Inquietanti i testi di “The Solid Black Beyond”, dialogo tra AC e Satana (il basso Erik Rosenius è lontano dall’essere impeccabile): «I’m bound for darkness, you’re not risen from your grave, the solid black beyond./To go where light cannot, Nazarene, that shall be my fate…». Una sfida alla morte, una sfida al paradiso in Terra che il figlio di Dio non ha saputo, o voluto, fondare con la sua prima venuta. Dopo l’anodina “The Crowning of Splendour” (nella quale si tratta l’uscita del bestseller, opera di Seth, La via aperta verso la pace e la prosperità universale), i quasi sette minuti di “Morning Has Broken” risultano davvero indigesti: poche ritmiche affiliate, voce tenorile monocorde e anche i testi abbondano di riempitivi.
La seconda mezzora del primo disco regala qualche sussulto ma è poca cosa. Anche la trama procede: dopo essere divenuto capo degli U.S.E., in “Anthem” AC è nominato Caesar per portare al mondo “a new form of light” e gioiamo per le parti di doppia cassa. “The Palace Ball” dipinge una scena intrigante à la Andrew Lloyd Webber: AC tenta Johanna, ma l’eroina (la cui vita è “simple but always true”) non cede all’inganno. Peccato per la musica, si poteva fare decisamente meglio, complice la cornice coreutica. Trascurabile la ballad “Jewels from Afar” (riferimento agli occhi di Helena), mentre “Hail Caesar!” (ambientata sei mesi dopo) presenta il miglior intro del lotto, con un sintetizzatore acido memorabile. AC proclama di portare un “paradise on earth, empty of sin, proud to burn”; incarna in sé un’irresistibile coincidentia oppositorum (“He seems but harmless, so mild yet so strong”) e una nuova età della ragione, “a new born season” sembra schiudersi per l’umanità. Il disco si conclude con un soliloquio del protagonista (“Nothing But My Name”) il quale, intimorito dal suo grandioso futuro, pare vivere una crisi d’identità: si ritrova a osservare il proprio busto marmoreo (si veda l’artwork) e la solitudine alienata dei potenti pare intristirlo senza possibilità di scampo.

Un intero atto preparatorio, dunque, e con molte lungaggini: si prosegue con più di una perplessità. Il secondo atto si apre con “The Arrival of Apollonius”, opener supponente che introduce il futuro braccio destro di AC, un mago (figlio del dio solare induista Surya) capace di dialogare con le forze della Natura e le potenze infere, liberamente ispirato ad Apollonio di Tiana (neopitagorico coevo di Gesù di Nazareth). Oggi un simile personaggio potrebbe essere incarnato da uno scienziato oppure da un CIO… Si viene dunque a creare una sorta di “trinità rovesciata”, perché è sempre presente sullo sfondo anche la figura di Satana. Troviamo qualche arrangiamento più trascinante in “Pledging Loyalty”, ma il duetto AC-Apollonius è anodino. Bocciate le successive “Night reborn” e “Dagger of God”, difficile ricordarne le melodie pure dopo ripetuti ascolti. Va leggermente meglio “Temple of New Jerusalem”, canzone più spigolosa e con un qualche groove. Thomas Vikström continua a non dimostrarsi all’altezza del ruolo da protagonista, mentre la vicenda lo vede interessato a costruire il proprio palazzo a Gerusalemme (nei decenni divenuta una città spopolata), vietando tuttavia ad Apollonius di aprire i cancelli dell’Inferno, come vorrebbe fare per dare sfoggio alla sua potenza esoterica. Come nel racconto, questo divieto da parte dell’imperatore è quasi metafora di una sublimazione inquietante, che esploderà nel finale in una guerra inevitabile. “The Lions Roar” è l’esempio di come un brano possa sconfessare il proprio titolo, a prescindere da un intro cinematico ma fine a sé stesso. L’inizio del Concilio mondiale voluto dall’Anticristo proprio nella città vicinorientale è presentato in “Bringing the Gospel”, che inizia con cori in latino, mentre in “Laudate Dominum” AC e il suo primo ministro compongono un ritratto spietato del passato dell’Umanità: «Starvation, death – filled our eyes/all with rain –/poisoned pain./Bombs and faith brought destruction,/famine, grief,/shattered dreams./Never forget our past.»
In “Remaining Silent” compare anche la figura di papa Pietro II, il quale impone all’Anticristo di riconoscere l’unicità dell’unico e vero Messia, cosa che ovviamente non avviene. Si prosegue allora con la scomunica inflitta dal pontefice a Ceaser Seth (“It will lead us to Sodom!”) fino al climax che, come nel racconto, vede morire fulminati il papa e, in questo caso, anche Johanna. In “Cursed be the fallen” il professor Ernst Pauli (l’eruditissimo teologo tedesco a capo della delegazione evangelica del concilio) diventa l’archimadrita che porta i pochi ribelli all’AC nel deserto aspettando una parusia chiarificatrice. Gli ultimi venti minuti del secondo CD annoiano ogni oltre dire. “Resurrection” scorre senza lasciare il segno (eppure le liriche vedono risorgere misteriosamente Johanna e il pontefice), stesso discorso per “To Where I Weep” (anche se in questo caso i testi recitati da Helena sono di rara liricità). “Astral Sophia” mostra un dialogo trascendente tra lo spirito di Sophia (il nome è parlante e ab ovo è attributo eminentemente divino) e Satana, che la donna scambia per la voce della Verità: viene in mente il fasto di Gothic Kabbalah ma tutto è un fuoco di paglia. Si ribadisce che il destino di Helena e quello di Johanna sono inesorabilmente collegati tra loro e il punto d’incontro è la figura dell’odiato-amato AC.

Iniziare il terzo atto è impresa titanica. Vero, si vuole scoprire il finale della vicenda, la sorte delle sorelle Orsini, ma sappiamo già che l’ultima ora di musica sarà uguale alle due precedenti. L’opener è una lieta sorpresa, “Shoot them down!” racconta del conflitto mondiale che vede contrapposti i due schieramenti, pro e contro l’AC (nel racconto sono soprattutto gli ebrei ha sollevarsi in ribellione). Ha farne le spese per primo è il professor Pauli. Le parole di Apollonius, infatti, sono esplicite e spietate: «Ripples of anger,/splashing of bloodshed/in the name of Caesar Seth./Victory!/Scarlet glow above thee,/dragons eyes –/flames that I/breathe…». Basta ascoltare, però, la successiva “Beneath the starry skies” per capire che qualcosa non va: le linee vocali maschili sono estenuate e sgradevoli nella loro sguaiatezza. “Forgive Me” è il brano più lungo in scaletta con quasi dieci minuti di durata e avviene il coup de théâtre tanto atteso. Le sorelle Orsini, finalmente faccia a faccia, arrivano a una ferale resa dei conti, che vede la morte di Helena, trafitta dalla spada divina che avrebbe dovuto eliminare l’AC. Gl’intrecci vocali e la presenza di un coro angelico conferiscono pathos alla scena, traluce la classe dei Therion, ma complessivamente il pezzo è prolisso. “The Wasterland of My Heart”, invece, di nuovo non comunica niente a livello emotivo: il monologo del protagonista, ormai vicino alla disfatta, avrebbe potuto prestarsi a soluzioni musicali migliori e rafforzare tematicamente il leitmotiv della solitudine dei malvagi. Altro brano dal minutaggio significativo, “Burning the Palace” dà avvio al declino del leader e Johanna intona un’intemerata iper-retorica: «Prince of night,/thy fate awaits thee – light this day’ll prevail. » Alla fine del quinto minuto trova spazio (finalmente!) un breve assolo di chitarra, niente di eccezionale, ma almeno ci ricorda che stiamo parlando di una band rock-metal. I testi parlano di Armageddon e l’AC si vede rivolte le seguenti parole rivelatrici: «There’s no escape, nowhere to flee, from your inferno» e in effetti è l’anima del protagonsita a essere malate. Per volere prima la pace eterna e poi scatenare una guerra spietata, evidentemente la volontà di potenza (tanto ben mascherata dal protagonista) deve ora trovare una manifestazione prorompente.
Dopo un breve intro, “Day of Wrath” è il Dies Irae del concept, ma i toni restano inspiegabilmente poco graffianti e incisivi, molto meglio riascoltarsi la riproposizione del pezzo mozartiano tratto dal Requiem registrato a Miskolc… Nell’ultimo quarto d’ora l’atto arriva a un naturale epilogo senza colpi di scena significativi. Seguono due pezzi leggermente più pesanti: in “Time Has Come / Final Battle” sono bene accette le ritmiche di chitarra ma nulla più; in “My Voyage Carries On” Apollonio si scaglia contro la traditrice Sophia, che decide infine di vendicare le offese mosse a Johanna dal mago tentatore. Come un Mefistofele minore, Apollonio fugge dimostrando scarsa fedeltà al proprio signore; in definitiva la sua figura rappresenta un opportunismo fine a se stesso e la funzione meramente strumentale di ogni negromanzia. A differenza del racconto russo, la scenografica battaglia finale nel deserto non vede vincitori e vinti. L’elegiaca “Seeds of Time” è il canto del cigno dell’AC: «A lonely world has long since gone to dust./A weightless word, a rain of light,/a silver tear will fall on fields of gold.» Un momento riuscito in un concept che abbonda invece di passi falsi. Johanna e AC, morenti, si danno la mano e l’eroina per la prima volta dubita di aver speso fruttuosamente la propria vita al servizio di Dio, visto che il mondo è ripiombato nella discordia fratricida. In pratica è come se la sorella sostituisse Helena formando una nuova coppia primigenia, divenendo la nuova Eva. La coda ultima, “To Shine Forever” e “Theme of Antichrist”, più che insistere sulla fine faustiana di AC, chiude il lavoro in modo circolare: gli eterni rivali, riconciliati, ascendono alle sfere celesti e incontrano le anime di Sophia e Helena («Our bodies have parted, but never our spirits./Joined in my soul with him, with the morning star forever more»). La luce si unisce all’oscurità, tutto è compiuto, nel cielo brilla una stella luminosa, come previsto dalla sacerdotessa Orsini. Non c’è catarsi, verità e menzogna restano intrecciate nel loro mistero. Come messaggio conclusivo una simile ambivalenza è quanto di più frustrante ci si potesse attendere. Restiamo basiti e, perché no?, irritati da un simile epilogo di maniera.

CONCLUSIONI

Si arriva francamente provati alla fine del viaggio sonoro questa volta dispiegato dai Therion. Sopravvissuti alle tre ore d’ascolto, il consiglio che sentiamo di dare è quello di avvicinarsi alla rock opera a piccole dosi. Beloved Antichrist non brilla per longevità, probabilmente a distanza di qualche anno pochi ricorderanno quest’album, tranne che per la sua natura controversa e la cattiva prova di sé data dal combo svedese. Johnsson –  profondendo ore di lavoro e certosina cura in fase di registrazione e produzione – intendeva dar vita, da navigato compositore, a un’architettura grandiosa, pensando a un’opera wagneriana dal minutaggio imponente e testi profondi, ma ha fatto il passo più lungo della gamba. Tentando di avvicinarsi all’Olimpo della musica colta ha ottenuto un conseguimento artistico molto più modesto di quanto regalato dai Therion in passato. È insufficiente (oltre che anacronistico) pensare di copiare la durata di un melodramma in tre atti, senza trovate compositive eccezionali. Qui non c’è eclettismo e veri sentimenti come in un’opera di Verdi o Gounod (quale aria, monologo o coro resta da cantare nella sua melodia irresistibile?). I rimandi antitetici, invece, al classico musical Jesus Christ Superstar sono fuori luogo e semplici trovate promozionali. Dal punto di vista musicale, lavorando di sottrazione (chitarre poco valorizzate, pochissima doppia cassa) si è evitata la piattezza saturante di certe recenti proposte symphonic metal, ma le tre ore del concept non presentano momenti originali degni di nota. In secondo luogo, puntando tutto sul comparto vocale (spesso al di sotto delle aspettative) gli arrangiamenti finiscono per risultare prevedibili e poco ispirati. Non bastano un pugno di pezzi discreti (“Hail Caesar!”, “The Arrival of Apollonius”, “Shoot Them down” e “Theme of Antichrist”) per salvare dalla vuotezza di contenuti un simile opus magnum, che impallidisce al confronto con un capolavoro della caratura di Gothic Kabbalah o Vovin.
Si poteva fare meglio anche con i testi ed evitare il proliferare di personaggi femminili, alcune delle quali del tutto accessori (Agnes, Mare e Lydia), senza contare che il tema amoroso è accostato malamente a quello bellico e a quello filosofico. L’anello debole a conti fatti è la figura di Johanna, la cui conversione ultima a un relativismo etico non convince affatto, perché troppo immediata e posticcia. Il racconto di Solov’ëv presenta anch’esso delle imperfezioni (si veda il finale raccontato in modo sbrigativo dal narratore di secondo grado), ma il ritmo è sorprendente, agli antipodi di quanto proposto dai Therion. Quello che si imputa alla band svedese non è la manipolazione del testo in sé (giusto aver tolto, ad esempio, la cornice salottiera del racconto), ma il mancato approfondimento del nucleo della storia, che parla anzitutto di solitudine e di una duplicità di fondo nel concetto di unità. Vediamo, infatti, Satana incarnare non il solito ruolo etimologico di divisore dell’umanità, ma di capzioso dittatore democratico che vuole unire gli uomini in un’omologazione coatta e idolatra. A farne le spese l’Anticristo che alla fine si rivela un essere umano, limitato dalla sua incapacità d’amare. Questo aspetto è stato trattato solo in modo cursorio nelle tre ore di concept, che si dilunga troppe volte in canzoni effimere, per concludersi infine con un’apoteosi del protagonista francamente opinabile. Gli svedesi possono ora sperare di riscuotere maggiore successo portando il musical in sede live (suo naturale contesto) con scenografie adeguate ed effetti rinvigorenti.

Tutti ci saremmo aspettati un capolavoro da Johnsson & Co., tutti avremmo voluto un ennesimo disco memorabile dei Therion, ma così non è stato. Omnis nimietas ex parte diaboli est.

 

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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