Recensione: Casting Ruin

Di Tiziano Marasco - 25 Novembre 2014 - 6:00
Casting Ruin
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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61

Tra i meriti dei Solace of Requiem c’è indiscutibilmente il fatto di aver fornito una bio dettagliata, sicché anche chi non li conosce come il sottoscritto può farsi un’idea della proposta di cui questo gruppo è portatore. Peraltro i Solace of Requiem si presentano come una band piuttosto navigata, fondata negli Stati Uniti dieci anni or sono e giunti questa primavera al quarto album.

I nostri si presentano quali alfieri di un blackened death metal di rara brutalità, estremamente tecnico e vario, incoronato peraltro da liriche poetiche che trattano di scienza. Orbene, alla realtà dei fatti alcune cose sono vere, altre un po’ meno. Appena messo Casting ruin sul piatto effettivamente l’idea è che una gragnuola di pugni, pressoché ininterrotta grazie al truculento dramming, si abbatta sui timpani dell|ascoltatore. Il death a tutti gli effetti c’è ma più che blackened vien da dire che scivoli decisamente verso il grind più comprensibile.

La tecnica è egualmente di alto livello. Sebbene il calor bianco levato dai nostri sia pressoché costante i cambi di ritmo sono assai diffusi, sebbene non particolarmente profondi. Altro elemento degno di nota si rivela essere la chitarra di Richard Gulcyznski, che spesso e volentieri si impegna in riff ed assoli a velocità folli, altre invece (decisamente poche), riesce a rallentare i toni con indiscutibile maestria.

A fronte di un lato tecnico che è fuori discussione però, i Solace of Requiem mancano di originalità. Alla fin fine non c’è quel qualcosa che possa permettere agli americani di emergere nel folto panorama del technical black metal. Egualmente i tanto decantati breack atmosferici sono sparuti (compaiono in quattro tracce), e neppure molto atmosferici. Un tastierista di livello tecnico elevato in pianta stabile potrebbe giovare non poco a questa band che, ora come ora non si distingue particolarmente da un’altra vagonata di gruppi.

Gli episodi migliori, va da sé, sono Pools of Ablation e Wading into Mire vale a dire quelli meno strutturamente equilibrati, con degli effettivi braeak atmosferici di buona sostanza ed evocatività, oltre naturalmente alla strumentale conclusiva, a tutti gli effetti l’unico pezzo effettivamente diverso.

Ci troviamo dunque di fronte ad un lavoro di grande mestiere, ma pure senza una sua identità vera e propria. Qualcosa che farà la gioia di tutti gli amanti del technical death ma difficilmente potrà catturare ascoltatori di panorami diversi. Accademia pura e qualche sprazzo di genio.

 

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