Recensione: Dark Light’s Shades

Di Alessandro Calvi - 18 Novembre 2004 - 0:00
Dark Light’s Shades
Band: Dark Horizon
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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70

Giunge al secondo album la band dei Dark Horizon con questo “Dark Light’s Shades” uscito a un paio di anni dal precedente disco d’esordio “Son of Gods”. Diverse cose son cambiate da allora, in particolare a partire dalla line-up modificata per tre quinti rispetto al precedente platter. Restano il Daniele Mandelli alle chitarre e Alessandro Battini alle tastiere (unici due membri fissi dalla nascita del gruppo) e se ne vanno gli altri, in particolare alla batteria torna Luca Capelli, già nel gruppo ai tempi della fondazione nel 1996. New entry sono invece Roberto Quassolo alla voce e Davide Marino al basso.

Con la nuova formazione e una grande voglia di riscatto, il primo album infatti per colpa di divergenze con la prima casa discografica era rimasto inedito per oltre un anno giungendo infine nei negozi già stantio, i Dark Horizon si presentano ai Pathway Studios di Wolfsburg per far masterizzare questo nuovo “Dark Light’s Shades” da Sacha Paeth. Una scelta che evidentemente ha pagato visto che la produzione e il sound del disco è davvero di prim’ordine.

Passiamo a parlare della musica di questo album. Il genere proposto dal gruppo è un power melodico impreziosito dalle tastiere di stampo piuttosto classico. Probabilmente non si tratta della band più originale e innovativa del pianeta, ma almeno dal mio punto di vista abbiamo a che fare con un prodotto genuino, scritto e suonato bene, senza per forza ricadere negli eterni cliché del copia e incolla a cui fin troppo spesso ricorre il power negli ultimi tempi.
Il disco si apre con “1793”, una intro melodica e piuttosto epica, con strumenti a fiato che nel finale in crescendo lascia spazio alla batteria e alle chitarre che aprono “Painted in Blood”. Un brano con frequenti cambi di tempo, che passa da momenti più aggressivi ad altri lenti in cui la voce viene lasciata quasi da sola ad esprimersi. Subito ci si rende conto che nel sound dei Dark Horizon le tastiere sono una componente fondamentale, e non potrebbe essere altrimenti visto che Battini è uno dei membri fondatori del gruppo. Proprio per questo la band riesce a renderle sempre molto varie e versatili, sia come sound che come temi allo scopo di non annoiare mai l’ascoltatore.
“Victim of Changes” devo che è forse una delle canzoni che mi sono piaciute di più nel lotto, ma è anche probabilmente la meno originale tra quelle presentate. Soprattutto nelle linee vocali del ritornello il primo paragone che salta alla mente è quello con i Queensryche, somiglianza ancora più accentuata dalla voce di Roberto che in alcuni frangenti assomiglia a quella del cantante statunitense in maniera impressionante.
Molto sinfonica, con una matrice che richiama spesso i Rhapsody è la successiva “Master of the Bright Sea”, una bella song in cui è lasciato ampissimo spazio alle tastiere, libere di esprimersi al meglio in una ampissima gamma di suoni.
Non mi ha invece convinto del tutto “Dragon’s Rising”, un brano connotato da una cadenza particolare, tra le più originali sicuramente del lotto, più lenta, se vogliamo più doom, più cupa e triste rispetto al resto dell’album e proprio per questo avrebbe dovuto convincermi maggiormente, invece così non è stato, ma probabilmente è solo una questione di gusti.
Si risolleva a mio avviso la scaletta invece con la successiva “The Spell You’re Under” in cui si torna a toni più allegri e sinfonici, anche se alcuni intermezzi di violini e clavicembalo devono forse ancora troppo ai Rhapsody.
Il meglio la band lo offre però a mio avviso nella trilogia di canzoni su Annibale, in questi tre brani sul condottiero cartaginese esce il vero valore del gruppo. Come già nel precedente “Son of Gods” torna il concept storico col quale il gruppo sembra avere davvero un feeling particolare. Canzoni molto varie con ritornelli azzeccatissimi e un gran lavoro di arrangiamenti e strumenti diversi. Tutte e tre a vario titolo meriterebbero la palma come migliore song dell’album per i passaggi che sanno offrire.
Chiude infine l’album “Flying in the Wind”, un’altra concessione ai canoni del power. Dopo l’intro strumental-sinfonica, tocca alla ballad come ultima band. Chitarra classica e violino gli unici accompagnamenti per la voce di Roberto che conferma dopo anche il resto del disco di essere un nome da tenere d’occhio perché potrebbe riservare delle belle sorprese in futuro.

Dal punto di vista della critica, la produzione è cristallina e praticamente perfetta, gli strumenti si sentono tutti benissimo e nessuno è lasciato in secondo piano, davvero un ottimo lavoro da questo punto di vista. Qualche frecciatina si potrebbe lanciare alla band dal punto di vista dell’originalità, i riferimenti ai Rhapsody e a un power di matrice estremamente classica di scuola tedesca sono tanti e spesso si sentono. Dire qualcosa di nuovo potrebbe non essere troppo difficile e sono convinto inoltre che sia alla portata di questa band che ha dimostrato di avere comunque diverse qualità.

Per concludere si tratta di un album davvero ben fatto, ben suonato, ben prodotto. Probabilmente non uno dei dischi più innovativi e originali di sempre del panorama power mondiale, ma sicuramente di almeno una spalla superiore alle produzioni medie del genere. Un album che dovrebbe piacere senza troppi sforzi agli appassionati e che offre spesso un interessante mix tra il power estremamente sinfonico e la scuola tedesca.

Tracklist:
01 1793
02 Painted in Blood
03 Victim of Changes
04 Master of the Bright Sea
05 Dragon’s Rising
06 The Spell You’re Under

– Hannibal the Carthaginian –
07 The Oath
08 The Glory
09 The Weeping

10 Flying in the Wind

Alex “Engash-Krul” Calvi

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