Recensione: Escape From The Shadow Garden

Di Eric Nicodemo - 21 Marzo 2014 - 20:02
Escape From The Shadow Garden
Band: Magnum
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2014
Nazione:
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80

L’immaginario non è solo il frutto di un’illusione generata dalla mente umana ma metafora veritiera della vita reale, di cui i Magnum sono inspirati cantori.

“Escape From The Shadow Garden” è assimilabile ad un libro che racchiude questa metafora, complessa e profonda, vera essenza dell’animo umano, la stessa essenza alla base della poetica dei Nostri: il giardino dell’ombra è quel luogo di paure, tristezza e malanimo che si cela in ognuno di noi e che ciascuno di noi cerca di esorcizzare e sconfiggere.
Immaginare questo disco come l’ennesima fiaba non è difficile, visto che sulla splendida copertina (ad opera di Rodney Matthews) ricompare l’iconica figura dello storyteller: l’immagine del narratore è, infatti, ancora una volta interpretata dall’enigmatico cantastorie, che giace ai piedi del fatato albero di “Chase The Dragon”, ora più misterioso e orfico che mai.   

Questa volta ritroviamo il bardo in una veste del tutto nuova ed insolita: il vegliardo non è ritratto mentre intrattiene i commensali (come nella leggendaria cover di “On A Storyteller’s Night”), ma  appare confuso e smarrito, quasi fosse stato fiaccato dalle visioni ingannevoli del Giardino dell’Ombra, che evoca immagini lontane come la creatura apparsa nell’illustrazione di “Chase The Dragon” (qui con le sembianze di un serpente che fuoriesce dall’albero).
Dietro l’albero, si nasconde il misterioso personaggio che campeggia sulla copertina di “On The 13th Day”: l’ambiguo “folletto”, un mefistofelico ibrido tra un clown e una maschera carnevalesca, spia il cantastorie, forse cospirando contro i malcapitati che si avventurano in questo luogo oscuro.
Il paesaggio è costellato da bizzarre mani, le quali indicano che ci sono molte vie per fuggire dal labirinto ma molte uscite sono finzioni e al singolo spetta trovare la vera strada per la libertà.
Tra le possibile vie di fuga, lottare strenuamente per il proprio obiettivo è una delle strade per uscire da questo tormento, come “Live ‘Til You Die” vuole suggerire: archi maestosi sfiorano l’aria, creando un velo di magia che viene lacerato da un grezzo, tagliente riff in simbiosi con l’aspra voce di Catley, mentre veloci inserti orchestrali serpeggiano tra chitarra e cantante. Il canto si eleva in una fuga con la sei corde, per spalancare la porta sul magico mondo dei Magnum, dove i contorni della realtà sfumano e la melodia corale plasma una dimensione da sogno.

Una ricca progressione chitarristica risplende nei vibrati alti e squillanti, dove il cuore sfida la morte, dimostrandole che può distruggere la fisicità del corpo umano ma non riuscirà mai ad intaccare l’eternità delle emozioni.
Mentre ci addentriamo nell’ascolto, l’atmosfera diventa una densa nube da sogno e Catley lascia librare una poesia scritta per mano di un arco. Carico di forza e disperazione è il racconto di Unwritten “Sacrifice”: il ritornello è un vecchio trucco di magia per i Nostri, che creano un incanto non nuovo ma ammaliante, dove Clarkin si esprime al meglio con sintesi e trasporto nel playguitar portante.        
Un luogo di sofferenza può nascondersi in qualunque animo umano e in qualunque situazione: sfogliando le pagine del quarto capitolo, “Falling For The Big Plane”, emerge la figura di una ragazza, la quale decide di lottare e superare gli ostacoli di un’esistenza travagliata, alla ricerca della libertà dalla sua opprimente condizione.          
La tristezza di “Falling For The Big Plane” è riprodotta grazie alla velata malinconia del pianoforte, sottolineata dall’inframezzo dei synts e dalle intercalazioni dei tasti grazie al tocco fatato di Mark Stanway.

L’epos della caduta è un momento drammatico quanto esaltante: Catley fa carico della disperazione avviluppando tra spire drammatiche e potenti le hook lines del refrain mentre il vibrare della chitarra si dispera con teatrale maestria.       
La tristezza, come spiegato in “Crying In The Rain”, è un passaggio obbligato mentre si attraversa questo giardino di illusioni: un rutilante groove si impone, trainato dalla grintosa voce di Catley che ascende con il crescendo dei backing; la ritmica sferza austera le strofe sofferenti, solo per infrangersi nel pianto del chorus, il quale scende copioso come le lacrime della nostra storia.  
L’ambiguo goblin della cover sembra prendere vita in “Too Many Clowns”: lo speed rock settantiano, indurito dalla produzione moderna, riecheggia attraverso l’ostinato musicale ed esplode nel vibrante chorus con la stessa forza espressiva di un avvertimento. La voce filtrata sussurra le parole enigmatiche del titolo nel pre-chorus, dominato delle illusioni elettroniche di Stanway, così da creare una pausa onirica e suggestiva.         
La figura del clown non è nuova all’immaginario del rock e, in particolare, nel simbolismo magnumiano: una parola che rappresenta le maschere della società, la moltitudine di falsi profeti e commedianti della vita quotidiana, un avvertimento vivido laddove i narratori si lanciano modellando inframezzi grazie ad una chiasmo tra chitarra e piano.        
Se “Too Many Clowns” richiamava una realtà “in trasparenza”, i synts di “Midnight Angel” ci riportano anni indietro, alle visioni sognanti di Vigilante, mentre il drumming in rilievo carica l’atmosfera e le venature vocali, da roche, si innalzano sulle ali di una melodia angelica.

Il dualismo musicale, diviso tra la batteria rocciosa e il romanticismo dell’acustica, rispecchia una dimensione in cui convivono le avversità e le speranze per un futuro migliore.     
Questa volontà di rivalsa risplende forte ed emozionale mentre i Magnum cavalcano le note di “The Art Of Compromise”, capitolo avvincente in cui la passione (il galoppante chorus) abbraccia momenti di raccoglimento e intimismo (gli accenni gentili del piano). Il guitarwork aggiunge quel tocco gemente irrinunciabile, donandoci forse la migliore esperienza in questo cammino attraverso le tenebre, diretti verso la luce.      
Come abbiamo detto, l’amore è la chiave essenziale per raggiungere la libertà ma è ugualmente essenziale non rinunciare ai propri sogni e alle proprie aspirazioni, se vogliamo spezzare i vincoli di una realtà opprimente: un concetto cruciale, riassunto nella ballad “Don’t Fall Asleep”, interpretata dalla voce drammatica di Catley, capace di svelare una melodia centrale che racchiude il segreto per uscire da questo luogo dei dolori. Una sensazione di tensione e calore attraversa le note dei tasti verso la fine del brano, mentre sogniamo di raggiungere la fine del travaglio.
Il messaggio è sempre velato ma presente anche in “Don’t Fall Asleep”: non darsi per vinto, non cadere nel torpore di una società rassegnata e vuota, priva della forza di gioire e della speranza di migliorarsi. Un sonno (la vita) privo di sogni (la volontà di riscatto) può diventare la tomba dell’animo, una condizione inaccettabile che sprona a reagire positivamente, rendendo meno amaro il calice della tristezza.

La via di fuga dalle avversità non è agevole e bisogna essere consapevoli che la realtà è spesso cruda e priva di senno: questa amara constatazione è la sentenza di “Wisdom’s Had Its Day”, un potente grido sinfonico condotto da un intrico di archi, penetrato dalla luce del coro, ma soprattutto scosso dalla disperazione di perdere la speranza nel domani.
Nel racconto, la saggezza (wisdom) è lasciata morire dalla cecità della noncuranza e del disprezzo: una situazione precaria, che si materializza nella sessione teatrale al centro della composizione, senza eccedere nei ricami virtuosi della classica ma sufficiente a rafforzare il senso di inquietudine.                  
Prima di raggiungere la fine, i Magnum ci scuotono con “Burning River”, rock’n’roll vigoroso, intriso di epica velocità: un brano marchiato a ferro e fuoco dalla foga del combattimento, che brucia nelle liriche, mentre la chitarra infiamma, propagandosi come un incendio nella progressione solista.
Il fuoco è mitigato solo dalle ceneri che si alzano al vento (la sessione rallentata) mentre la desolazione dopo l’incendio si presenta a noi in tutta la sua tragicità (il sussultare dei piatti che si trascina e svanisce in chiusura).

La distruzione incendiaria può essere interpretata come la follia devastatrice del drago tolkeniano (inteso come guerra, violenza, sopraffazione), su coloro che hanno osato ribellarsi alla paura e al terrore (ovvero la popolazione e, in senso universale, l’uomo).
Questa interpretazione potrebbe sembrare personale ma è del tutto credibile, considerata la passione per Catley e Clarkin nei confronti dell’immaginario della Terra di Mezzo (d’altronde, non è raro avvertire una profonda sinergia tra l’iconografia dei Magnum e l’opera di Tolkien).

I Magnum, maestri nell’emozionare, affidano il commiato a “The Valley Of Tears”, l’immancabile elegia scritta dall’incedere di un piano malinconico. Sembra di percepire chiaramente la valle delle lacrime mentre Catley urla di dolore: tutti abbiamo attraversato questa landa dolorosa, che ricorda la nostra fragilità e debolezza.
Il brano, tuttavia, non è un invito a cedere al rimpianto e al cordoglio ma è un’esortazione a reagire in questa valle desolante qual è il mondo dell’uomo.     

Prima di concludere la nostra storia, è necessario scriverne l’epilogo: mantenendo la similitudine del racconto, “Escape From The Shadow Garden” è un libro che possiede capitoli ricchi di poesia byroniana e sfumature intimiste (“Falling The Big Plane”, “Unwritten Sacrifice”), alternati a momenti d’azione ed energia entusiasmanti e coinvolgenti (“The Art Of Compromise” e, soprattutto, “Burning River”).
E’ giusto anche dire che la narrazione non sempre si mantiene su livelli d’eccezione e denota una registrazione migliorabile; inoltre, alcune composizioni, seppur orecchiabili e attraenti, risultano lavori di maniera se confrontate con il vasto background dei Nostri (“The Valley Of Tears” ne è un esempio).  
“Escape From The Shadow Garden” comunica, tuttavia, una sensazione di appagamento e soddisfazione, dimostrando che il tempo non ha scalfito la capacità di emozionare di questa band, ancora oggi ricca di brio e ispirazione unici nel panorama del rock melodico (dopotutto, Tobias Sammet ne sa qualcosa…).

Se non possedete nulla dei Magnum, questo disco potrebbe rappresentare un buon inizio, prima di avventurarvi tra i loro classici.
Per tutti gli altri, questo nuovo racconto lascerà, come da tradizione, un messaggio indelebile:   l’immaginazione è un’amica insostituibile, capace di descrivere le emozioni meglio della realtà tangibile e quantificata, la quale non riesce spesso a comprendere e tradurre i sentimenti nascosti in ognuno di noi.

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