Recensione: Five Deadly Venoms

Di Massimo Ecchili - 2 Giugno 2010 - 0:00
Five Deadly Venoms
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Genere:
Anno: 2010
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82

Strani ragazzi questi Shaolin Death Squad, cinque ispirati musicisti dagli
improbabili nomi di battaglia.
Nel 2006 esce il loro debut Intelligent Design, decisamente influenzato da Mike
Patton e dai suoi innumerevoli progetti, con un occhio di riguardo per quell’entità
schizzata ed informe che risponde al nome di Mr. Bungle. Gli americani si
ritagliano un angolino tutto loro all’interno del filone avantgarde, e riescono
a non passare inosservati un po’ perché l’esordio è indubbiamente sopra le
righe, un po’ per le loro ottime esibizioni live, nelle quali si presentano sul
palco con maschere e costumi che omaggiano il Sol Levante.
Dopo quattro anni, durante i quali rimangono inspiegabilmente senza contratto,
si ripresentano sulle scene con un full length che sembra un caleidoscopio. Al
posto dei vetri colorati, però, al suo interno troviamo innumerevoli influenze
ed una notevole varietà di spunti che vanno in altrettante direzioni. Difficile
trovare un filo conduttore con queste premesse, vien da pensare; quasi
impossibile. Ed invece ci troviamo di fronte ad un disco che, se da un lato
rimanda continuamente ad un genere o ad un preciso riferimento, dall’altro
conserva uno stile riconoscibile e, tutto sommato, presenta un qualche oscuro
filo conduttore unitario che lo rende un continuum invece che uno scombinato
puzzle.

La prima cosa che si nota ascoltando questo Five Deadly Venoms e
rapportandolo al predecessore, è l’abbandono dell’incoscienza giovanile. E’
indubbio che questo album sia più maturo, ragionato (pregio o difetto?) e che
goda della dote di aver un’idea musicale più chiara alla base.
Se Intelligent Design impressionava per la quantità di idee dai forti contrasti
contenute, qui magari è vero che le stesse in qualche modo si riducono (non come
portata, ma nel senso della reciproca conflittualità), ma trovano uno sviluppo
maggiore e più ponderato; aspetto che rende i pezzi meno ostici e, a volte (Farewell),
addirittura piacevoli.
Va precisato a questo punto che ancora persistono dissonanze e momenti
“disturbanti”: neanche questo, come il primo, è un disco facile.
L’introduzione è affidata a Romanza, che altro non è che l’esecuzione, piuttosto
canonica, della romanza spagnola. Mentre ancora ci si chiede il motivo di tale
inizio, ci si ritrova immersi nell’angosciante atmosfera di Centipede, che
assieme alle seguenti Snake, Scorpion, Lizard e Toad va a formare un omaggio ad
un film di Chang Cheh del 1978 intitolato, appunto, Five Deadly Venoms, esempio
di trash movie giapponese di fine anni ’70 nel quale i protagonisti sono cinque
guerrieri. Il nome di ognuno di questi dà il titolo ad uno dei brani appena
citati. Il loro maestro morente manda a scoprire chi tra di loro stia usando per
scopi non propriamente leciti l’arte acquisita (non è quello che si potrebbe
definire un capolavoro, insomma).
Le influenze, si diceva. Non è semplice riconoscere e catalogare tutto quel che
viene inserito e mischiato nei brani che si susseguono. Di sicuro c’è genio e
sregolatezza di Frank Zappa, di certo di quando in quando fa capolino l’amore
per i primi Pink Floyd marchiati Syd Barret; è indubbio che i nostri abbiano
appreso la lezione dei gruppi meno convenzionali del progressive degli anni ’70:
quindi le allucinazioni sonore di Robert Fripp e le oscure atmosfere dei Van Der
Graaf Generator di Peter Hammill; ma c’è molto di più. Altrimenti come spiegare
il riff di chiara matrice thrash di Lizard, o i rimandi ai Cynic contenuti nello
stesso pezzo o, ancor di più, nella voce filtrata di Last Stand? Su tutto
questo, ma non solo, va aggiunta un’abbondante spolverata di psichedelia, giusto
per rendere la ricetta ancor più appetitosa.
Per quanto riguarda le prove dei singoli, va segnalato il drumming fantasioso e
dinamico di Black Ninja, apprezzabile soprattutto in Scorpion ed in Toad; The
White Swan si distingue invece soprattutto nella già citata Last Stand, dominata
appunto dalle sue tastiere ed impreziosita da un coro marziale.
Interessante anche l’uso delle tre voci, capace di donare colore e movimento ai
brani dell’album. A proposito dell’aspetto vocale va sottolineato il pressochè
totale abbandono degli inserti di growl ben presenti in Intelligent Design,
scelta che lascerà in più di qualcuno parecchi dubbi sull’efficacia di tale
variazione stilistica.
Il pezzo da novanta del platter è la teatrale Let Us Welcome The Actors
(impreziosita dall’uso di un apprezzabile falsetto), che ricorda ancora i Pink
Floyd, ma questa volta quelli di The Wall (e la scelta di eseguire in sede live
The Trial non sembra casuale). Impossibile non rimanerne affascinati.
A questo punto è doveroso chiarire un aspetto fondamentale: tutte le influenze,
le ispirazioni, i richiami, sono da intendersi in senso assolutamente stretto, e
non vanno confusi con plagi o scarsa personalità. Prendendo Five Deadly Venoms
nella sua globalità ne va riconosciuta l’assoluta identità di opera compiuta ed
originale.
Dopo la già citata Farewell, alla quale si può attribuire il premio di brano
meno insano, cala il sipario accompagnato dalle note della conclusiva Peace Be
Upon You, reprise della spanish romance già omaggiata in apertura, ma questa
volta, ancorché introdotta dal piano, eseguita in elettrico, con tanto di assolo
e lungo finale in tapping.

Dopo un esordio sbalorditivo arriva dunque una seconda fatica interessante e
piena di fascino un po’ retrò; se la crescita artistica dei cinque non trova
inaspettate battute d’arresto, se incontrano sostegno di critica e pubblico, nei
limiti naturalmente del seguito di nicchia, se qualcuno si degna di investire in
loro in termini di fiducia e produzione/promozione, è lecito aspettarsi con il
prossimo platter una qualche sorta di capolavoro.
Per ora ci si goda Five Deadly Venoms, che ha il fascino irresistibile ed un po’
perverso delle cose non facili. Appena finisce lascia nell’ascoltatore la voglia
di rimetterlo dall’inizio, desiderio dettato dalla curiosità di apprezzare tutti
quei particolari che si sono inevitabilmente perduti ascoltandolo (se si conosce
e si apprezza il cinema di Lynch non sarà difficile comprendere la sensazione).
Può esistere un pregio migliore per un disco?

Massimo Ecchili

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Tracklist:

01. Romanza
02. Centipede
03. Snake
04. Scorpion
05. Lizard
06. Toad
07. Mischief And Epiphany
08. Let Us Welcome The Actors
09. Last Stand
10. Farewell
11. Peace Be Upon You

Line-up:

The White Swan (Androo O’Hearn) – Vocals, keyboards
Black Ninja (Matt Thompson) – Drums
Red Dragon (David O’Hearn) – Guitars, vocals
Black Scorpion (Kenny Lovern) – Guitars, vocals
White Dragon (Gary Thorne) – Bass
 

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