Recensione: Four

Di Fabio Vellata - 30 Settembre 2013 - 0:01
Four
Band: Coney Hatch
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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81

Ritrovarsi dopo quasi trent’anni per rinverdire le memorie di un passato talmente lontano, da essere quasi difficile da ricordare.
Una scommessa ed un azzardo perigliosi che, celebrando la vita, riportano memorie antiche e si collegano con il lato più passionale della musica rock, mostrandone – ancora una volta – i risvolti dai contorni maggiormente romantici e le suggestioni da romanzo d’appendice.

Dietro all’inatteso come back dei canadesi Coney Hatch si cela, in effetti, una storia singolare che merita di essere raccontata.

Nato agli albori degli eighties a Toronto – Canada – il quartetto guidato dal singer e chitarrista Carl Dixon ha conosciuto quella che può essere definita una gloria “vera ma effimera”.
Protagonista di tre ottimi album nel triennio 1982 – 1985, la band divenne ben presto una sorta di piccola gloria nazionale in virtù di estenuanti tour in compagnia di grandissimi nomi destinati alla leggenda, quali Judas Priest, Iron Maiden, Accept e Cheap Trick, e ad una miscela di heavy-rock  – ruvido ma al contempo elegante – che valsero ben presto a Dixon e compari il nomignolo di “band più rumorosa di tutta Toronto”.

Gloria, come dicevamo, reale ma effimera. E soprattutto, destinata a prosperare per un periodo di tempo decisamente esiguo: già nel 1986 i quattro Hatch salutavano le scene, sancendo uno split che sarebbe stato definitivo ed inappellabile.
Impegni di altro tipo e carriere soliste attendevano i musicisti: più che dignitosa quella di Dixon – (caratterizzata dalla militanza in Guess Who e April Whine, oltre che da una corposa serie di altri side project) e Andy Curran, un po’ più anonima per Steve Shelski e Dave Ketchum, chitarrista e batterista, destinati a vedere il loro nome legato in modo indissolubile a quello del gruppo che ne aveva consentito la notorietà.

Una storia destinata a rimanere un piacevole episodio per collezionisti di dischi vintage sino alla singolare data del 14 aprile 2008, giorno che vide Dixon protagonista di un pauroso incidente sulle strade australiane a bordo di una motocicletta. Un impatto talmente violento da condurre il singer canadese in uno stato di coma dal quale risultavano improbabili possibilità di risveglio.
Leggenda narra che la consorte di Dixon, in un momento di sconforto, abbia contattato telefonicamente i vecchi membri ed amici dei Coney Hatch, nel tentativo di dare una “scossa” al proprio congiunto facendo risentire le loro voci.
Fu poi lo stesso Curran a confermare che, senza pensarci troppo, si trovò ad esortare il vecchio sodale, caduto in stato d’incoscienza, ad una pronta guarigione, condizione necessaria per poi rimettere in pista la loro vecchia band con la quale avrebbero avuto ancora molto da dire e tanta strada da fare insieme.

Detto fatto: ristabilitosi miracolosamente, Dixon prese in parola l’amico e la reunion dei Coney Hatch, annunciata nel 2010, era messa in cantiere.
Qualche concerto di rodaggio, una apparizione al festival inglese Firefest e la release di un album nuovo di zecca: un secondo inizio per un gruppo che, forse, era decaduto troppo presto.

Tralasciando per un attimo, i toni romanzeschi della vicenda – comunque molto singolari e significativi – per addentrarci in via definitiva in quelli che sono i lati squisitamente artistici e musicali della questione, ed alla luce dell’ascolto reiterato di “Four” – cd appena edito da Frontiers Records – in effetti, non possiamo che confermare quanto incoscientemente dichiarato da Curran: i Coney Hatch hanno davvero ancora parecchio da dire agli appassionati di Hard Rock.

Esperienza e gusto per la melodia, produzione raffinata ed “attuale”, abilità dei singoli al di sopra di ogni sospetto e capacità compositive oltre la media.
Il risultato?
Un album delizioso ed accattivante, composto da brani ricchi di hookline orecchiabili e caratterizzato da un’aria stilosa e vissuta che non appare mai “retrò”, tanto da rendere i vari episodi un felice connubio tra vecchie concezioni rock di tre decadi fa e recentissime soluzioni melodiche, quasi “alternative” in alcune sfumature peculiari.
Come una sorta di ibrido tra gli antichi Ac/Dc ed i più recenti Winger, Dixon e soci dimostrano, infatti, di aver acquisito un livello di songwriting capace di rendersi energico ed avvolgente mediante il ricco utilizzo di suoni ruvidi ossequiosi del passato, mescolati a dissonanze moderniste e ritornelli a dir poco seducenti.
Esempi pratici sono rilevabili nelle ottime “Blown Away” e “Boys Club”, brani che evidenziano il dualismo descritto poc’anzi: chitarre dirette alla Angus Young e cori che sembrano sradicati dalla penna di mr. Kip Winger.
I quattro poi, oltre a rivelare appieno le proprie radici seventies, non disdegnano affatto qualche puntatina nell’hard un po’ più contemporaneo ed attuale, mostrando un orecchio attento alle novità.
Una serie di piacevolissimi episodi quali “Do It Again”, “We Want More” e “Keep Driving” descrivono un gruppo di musicisti tutt’altro che ammuffito e schiavo di vecchi cliché.
Ma sono tracce di assoluta bellezza e qualità come “Connected” e “Revive” a determinare senza possibilità d’errore la riuscita dell’operazione di rientro in scena.

Una reunion insomma che, per una volta, ha tutta l’aria di essere qualcosa di diverso dal consueto “tirare a campare” su di un nome più o meno storico del rock di tanti anni fa.
Piacevole, ben assortito, suonato con garbo e molta classe ma, soprattutto, ricco di belle canzoni (il fondamento essenziale per un buon album, dopo tutto), “Four” dei ritornati Coney Hatch è una piacevole sorpresa che, personalmente, non pensavamo potesse rivelarsi tanto gradita e di buon livello.

Avevano davvero, ancora qualcosa da dire…!

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