Recensione: Golgotha

Di Stefano Burini - 11 Ottobre 2015 - 11:39
Golgotha
Band: W.A.S.P.
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2015
Nazione:
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78

Strana storia, quella di Blackie Lawless e della sua band. Strana eppur avvincente, esattamente com’è lecito attendersi da una saga in grado di andare avanti per la propria strada da un più d’un trentennio senza (quasi) mai cedere il passo.

Venuti alla luce nei primissimi anni ‘80 sotto il segno dello shock rock più oltraggioso, i W.A.S.P. sono giunti fino ai giorni nostri passando pressoché indenni attraverso mode, epoche, vicissitudini ed eccessi assortiti. Il loro segreto? Senza dubbio l’essere in possesso di un sound caratteristico, diretta emanazione della personalità di Blackie Lawless e del suo straripante talento vocale e compositivo.

«Talento e personalità, hai detto nulla» Già, vero. Non si tratta certo di due “ingredienti” reperibili a buon mercato nella bottega dietro l’angolo o in qualche Accademia, tuttavia è proprio grazie ad essi che un gruppo come i W.A.S.P. è riuscito a mantenere inalterati i propri cromosomi fino ai giorni nostri. Al punto che in qualsiasi composizione della band americana, anche in presenza di piccole – ma significative – variazioni formali (come ai tempi “cromati” di “Inside The Electric Circus”) o di evoluzioni tematiche decisamente più consistenti (conseguenti dalla folgorazione mistico/religiosa che ha colpito Blackie a partire da “The Headless Children”), l’impronta dei W.A.S.P. risulta sempre evidente e immediatamente riconoscibile.

Il nuovo “Golgotha”, sin dall’eloquente titolo e dall’apertura affidata alla riuscita “Scream”, non fa eccezione alla regola, continuando sulla strada imboccata ai tempi dell’Idolo Cremisi e percorsa fino all’anno domini 2015 con album più (“Dominator”, “Babylon”) e meno riusciti (come “Still Not Black Enough”, “Kill Fuck Die” e per certi versi il fin troppo ambizioso “The Neon God”).

Il sound, le atmosfere, la poderosa voce di Blackie: tutto quanto è al proprio posto e se qualche maligno avrà da ridire sul fatto che in alcune occasioni la sensazione di dejà entendu è effettivamente tangibile, va altrettanto detto che a fronte di qualche brano di effettivo mestiere (come le poco brillanti “Last Runaway”, vagamente Survivor, e “Shotgun”), Blackie e compagnia riescono a tirar fuori, ancora una volta, una serie di brani assolutamente notevoli.

Canzoni come le fluviali “Miss You”, “Slaves Of The New Order” e “Eyes Of My Maker” o come l’altrettanto ambiziosa title track sfidano, infatti, a viso aperto le immortali hit del passato reggendo peraltro il confronto senza troppi patemi, in virtù di un songwriting ispirato e dell’ormai collaudatissima bravura nel dipingere atmosfere in grado di coniugare sacro e profano in maniera così totale e caratteristica. Completano, infine, il quadro le restanti “Fallen Under” e “Hero Of The World”, leggermente inferiori rispetto alle quattro instant classic di cui al capoverso precedente, ma non per questo fuori posto all’intero di una tracklist di livello medio elevato.

“Golgotha” è un tipico album in stile W.A.S.P. anni duemila: poche sorprese e un pizzico di mestiere da parte di una band – e di un leader – legati in maniera indissolubile ad uno stile certamente collaudato ma ancora in possesso di quella dose d’ispirazione necessaria per dare vita all’ennesimo tassello di una lunghissima ed onorata carriera.

Bentornati!

Stefano Burini

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