Recensione: Grim Tales in the Dead of Night

Di Stefano Usardi - 22 Dicembre 2016 - 9:50
Grim Tales in the Dead of Night
Band: Lurking Fear
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2016
Nazione:
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69

Play it loud and surrounded by darkness…

Questo il minaccioso suggerimento che, a guisa di sfida, campeggia sul retro di copertina dell’esordio dei Lurking Fear, trio toscano nato ufficialmente solo nel 2011 ma formato da ragazzi capaci e con un’esperienza pluridecennale alle spalle. Registrati in presa diretta, i cinque, sulfurei brani che compongono questo “Grim Tales in the Dead of Night” (della durata media di sei minuti e mezzo) trasudano attitudine e feeling, richiamando subito alla memoria quel periodo a cavallo tra gli anni ‘70 e ’80 in cui la magia dei Black Sabbath si fondeva col metallo della NWOBHM. Se a ciò aggiungete testi che si rifanno agli scritti di signori come Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft, capirete che di roba sul piatto ce n’è parecchia. Prima di andare avanti mi si conceda una breve digressione per far capire subito ai lettori a che pubblico si rivolge questo EP: se cercate ritmi aggressivi, sferzate di doppia cassa come se piovesse, cori angelici accompagnati a voci maschili in growl o tastiere pseudo-gothic, allora cliccate sull’icona a forma di casina sulla barra in alto e passate a un altro album. Qui troverete solo disperazione e malignità, oltre (naturalmente) a una colata di metallo pulsante ed angoscioso scatenato da questi tre figli dell’entroterra toscano, tra Firenze e Arezzo.

La partenza è affidata alla deflagrante “The Watching Eye”, in cui già dall’intro si avverte il profumo dei primissimi Iron Maiden grazie ad un lavoro muscolare di basso e chitarra che, anche per via di un bilanciamento dei suoni che penalizza un po’ troppo la voce mefistofelica di Fabiano, contribuiscono ad innalzare il tasso di adrenalina del pezzo. La canzone, dai ritmi molto hard & heavy, si concede di tanto in tanto qualche rallentamento più scandito, come ad esempio durante il bell’assolo, per poi tornare a farsi incalzante poco prima del finale.
Lady of Usher”, dal titolo che richiama un celebre racconto di Poe, inizia con un riff che più classico non si può, distendendosi lungo i suoi sette minuti abbondanti grazie a ritmiche lente ed inesorabili e un andamento generale che paga un pesante tributo ai Mercyful Fate. Qui la voce di Fabiano, sorretta da un ottimo lavoro di Mirko, racconta la lugubre storia come il suo nume tutelare, il Re Diamante, imporrebbe, mettendosi al servizio del racconto e facendosi di volta in volta intensa, sguaiata, narrativa o sussurrante, e consegnandoci una traccia decisamente ben riuscita. La successiva “The Strain”, con il suo incedere lento e luciferino, prosegue la serie di omaggi del trio toscano ai grandi del metal, in questo caso i padri di tutti noi: quei quattro ometti che, dalle parti di Birmingham, diedero il via a tutto più di quarant’anni fa. I riff si fanno densi, insistenti, guardinghi, cedendo più volte il passo al lento e implacabile lavoro di basso ma sempre attenti a non uscire dall’ombra malsana di percussioni dal sapore rituale. L’assolo blueseggiante concede un attimo di tregua dalle inquiete melodie che, fattesi per un momento ipnotiche, col ritorno in scena della voce tornano a stringere la loro morsa seducente ma ferrea sul brano più lungo dell’EP.
Partenza dal profumo di rock & roll per “I Am”, traccia dai ritmi più movimentati ma dal mood sulfureo immutato. Il brusco rallentamento centrale riporta prepotentemente alle narici l’odore del Sabba Nero, prima di tornare a pigiare sull’acceleratore nella seconda parte più frenetica.
Un sinistro crescendo introduce il riff corposo della conclusiva “Flesh and Soul”, anch’essa perennemente in bilico tra le sfuriate chitarristiche dei Mercyful Fate, rapide pennellate di melodia e gli intermezzi sinuosi tipici dei quattro di Birmingham. L’inquietante assolo centrale apre la strada ad un rallentamento opprimente (che allo stesso King Diamond sarebbe piaciuto parecchio) durante il quale la voce di Fabiano si fa declamatoria e salmodiante, mentre il successivo e palese omaggio all’eterna “Black Sabbath” prelude la brusca accelerazione che ci indirizza verso il finale di questo ottimo esordio.

Tirando le somme, questo “Grim Tales in the Dead of Night” è un ottimo biglietto da visita per il combo toscano: suonerà pure incredibilmente derivativo, è vero, ma quando la passione del gruppo è così evidente e il risultato finale così minacciosamente demodé non posso far altro che mettermi comodo davanti al camino, riprendere in mano la mia copia del Necronomicon e pigiare di nuovo play.
Proprio quello che mi ci voleva per sopravvivere al Natale.

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