Recensione: In The Presence Of Darkness

Di Tiziano Marasco - 13 Maggio 2013 - 0:38
In The Presence Of Darkness
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Anno: 2013
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50

Ricordo assai bene come mi imbattei la prima volta nei Crest Of Darkness. Spinto dalla ricerca di qualche canzone dei nostrani Klimt 1918, di cui si diceva un gran bene, mi ero recato sul sito della parimenti nostrana My Kingdom Music onde appropriarmi almeno di Parade of adolescence. Girando sul sito della label, avevo scaricato tutti i promo digitali delle altre band. Tra queste i Crest Of Darkness, allora alla quarta release, mi avevano colpito per il nome e per la ferocia. Si trattava al tempo di un black assai arzigogolato ed espresso a velocità assurde. Musica che pure aveva suscitato alcune perplessità nel sottoscritto come nel truerecensore di allora (Matteo Bovio). Ma era il 2004, un anno in cui perdevo i privilegi del carcere minorile e dell’attraversamento col rosso in bicicletta; ed era anche un anno in cui il mondo del brutal era ancora tutto da scoprire, eccezzion fatta per Dimmu Borgir e Cradle Of Filth.

Da allora di anni ne son passati nove, le release dei Crest sono diventate sei, la loro proposta risulta diversa da allora e così anche l’impressione suscitata all’ascolto. Trattasi ora di black metal di un certo tipo, vale a dire il più vetusto rintracciabile sul panorama. Forse che il panorama estremo non è più da scoprire, fosse anche che di dischi simili in nove anni ne escono novemila, ma il quartetto sembra aver perso tutta l’originalità di allora.

È indiscutibile che il songwriting sia incredibilmente solido, il frastuono levato dai nostri sorprendente. Bisogna anche riconoscere un’estrema eleganza nell’interpretazione ed una produzione coi fiocchi (che pure è regola in casa My kingdom music). Eppure già al secondo minuto di In the presence of darkness, seconda traccia e title-track, parte il primo sbuffo. Al primo minuto di Redemption parte il primo sbadiglio. Fatto sta che questa prova risulta costruita su assiomi che hanno già reso grandi i Naglfar e che i Gorgoroth hanno stereotipato con impareggiabile maestria. Si aggiunga certe virate thrashose e avete un disco indiscutibilmente ben fatto, ma che per tutti i quaranta minuti  della sua durata vi lascia con un groppo sullo stomaco. Groppo traducibile nella costante speranza di poter trovare un guizzo, un’apertura, una sbandata che dirotti il lavoro sulle tracce dell’originalità, sulle tracce, per dire, dei Nachtmystium, possibilmente quelli di Assassins – The black medley.

Ma ciò non accade, non c’è una variazione atmosferica di tastiere, non c’è un assolo di stampo prog: elementi che oramai non sarebbero tanto segno d’originalità ma quanto di vita, qualcosa che spezzi una monotonia interminabile fatta di riff chitarristici primordiali e batteria a martello. E la ripetizione di ascolti non fa che confermare l’idea d’una band forse matura, indubbiamente stilosa (per quanto tale termine possa calzare al black), ma senza nuove idee.

Per tanto, con la lapidarietà propria del vate, non resta che una conclusione: se siete amanti del true norwegian potete concedere ai Crest una possibilità e magari vi troverete ad alzare il voto in calce anche di trenta punti; in caso contrario girate al largo.

Tiziano Vlkodlak Marasco

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