Recensione: Juggernaut: Omega

Di Stefano Burini - 1 Marzo 2015 - 10:24
Juggernaut: Omega
Band: Periphery
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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80

Poche settimane fa discutevamo di “Juggernaut: Alpha”, il primo nato del nuovo parto gemellare di casa Periphery e ora ci ritroviamo a parlare dell’altra metà della mela, dello yang, del doppelgänger se voleste (volessimo) esagerare. Ma si tratta davvero di due album così diversi e per certi versi complementari?

Si e no.

Il filo conduttore narrativo del concept – abilmente descritto da qualche collega anglofono come «della roba a tema vagamente spaziale/onirico» – si rivela essere tutto sommato poco più che un pretesto e a ben guardare (pardon, ascoltare) il vero legante tra le diciassette canzoni incluse nei due dischi ottici non è altro che l’inconfondibile stile di questi sei musicisti americani.

“Omega” è, in effetti, mediamente più aggressivo, schizzato e indisciplinato di “Alpha”, al punto tale da sembrarne una sorta di “gemello cattivo” in più d’un frangente. Lo si può intuire semplicemente scorrendo il minutaggio a fianco della tracklist, con il nervoso alternarsi di brani brevi, secchi e brutali (come “Graveless” o “Hell Below”) con pezzi più lunghi ed articolati nei quali la melodia riesce, alla fine, ad averla vinta sulla violenza. Eppure, in entrambi i casi, il marchio di fabbrica di Misha & C. torna a galla prepotentemente, senza trascurare alcuna delle sfumature che hanno caratterizzato il Periphery-sound dagli esordi sino ad ora e, anzi, approfondendo quell’insana passione per le fughe jazzy solo accennata ai tempi di “Clear”.

Da un tale bailamme, a ben pensarci, non potevano che nascere e svilupparsi canzoni caotiche come la maestosa title track “Omega”, una vera e propria suite della durata di quasi dodici minuti durante i quali i ragazzi del Maryland non lesinano energia e immaginazione (e nella quale l’ombra del mai troppo lodato Devin Townsend si fa più minacciosa che mai), o come la mutevole “The Bad Thing”. Canzoni cui fanno da perfetto contraltare le più morbide ma non meno elaborate “Stranger Things” – forse la più bella mai composta dagli statunitensi fino ad oggi – e “Priestess”: due gemme di rara bellezza, come d’abitudine illuminate dalle fantasiosissime linee vocali di uno Spencer Sotelo in forma mondiale.

Gli amanti della melodia e del lato più morbido e “progressivo” dei Periphery prediligeranno, con ogni probabilità, il più solare ”Alpha”, al confronto del quale il martellante “Omega” si configura come una vera e propria ginocchiata nelle gengive di tutti coloro che hanno sempre giudicato la musica del sestetto a stelle e strisce troppo morbida e “ammiccante”. Non importa da quale delle due parti vi ritroviate: il presente e, con ogni probabilità, il futuro del metal passano (anche) di qua.

Stefano Burini
 

 

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