Recensione: L’Appel du vide

Di Tiziano Marasco - 2 Febbraio 2014 - 4:00
L’Appel du vide
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2014
Nazione:
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72

Ascoltando L’appel du vide verebbe quasi da chiedersi che i nostri cugini d’oltralpe non abbiano ritrovato il gusto del metallo pesante, o meglio, del doom atmosferico. Perché effettivamente le atmosfere brumose di questo bel dischetto, unite a tal titolo francofono, farebbero pensare che il gruppo qui in azione sia abituato alle nebbie della Manica tra Calais e la Bretagna.

Ma no, e il fatto che questi baldi giovani incidano per la Aural music dovrebbe mettere in guardia circa la provenienza del quintetto. La provenienza infatti è la ben più afosa ed assolata terra dei Canguri (siccome dei Ne Obliviscaris). Propriamente, i Rise of Avernus emergono dalla città di Sidney. Formatisi una manciata di anni fa, danno alle stampe L’appel du vide come primo album, successore di un demo omonimo. C’è da dire che i nostri sanno farsi notare, come denota il fatto che i Rise Of Avernus abbiano fatto e sono in procinto di fare da apripista a formazioni prestigiose quali Apocalyptica, Enslaved o Rotting Christ.

Tali nomi potrebbero dare una idea di massima circa le linee seguite dagli australiani. Pure sono loro stessi a negare tali influenze con la esaustiva definizione di orchestral progressive doom metal che essi stessi danno alla loro musica. Una definizione però pretenziosa anche a fronte di una proposta rispettabile: se siete dei progger più o meno incalliti, qui di progg ne troverete poco. Orchestral doom invece calza molto bene ai nostri, che potrebbero risultare una versione più edulcorata ed atmosferica dei finnici Ethernal Tears of Sorrow, oppure un elegante smussamento dei My Dyng Bride.

Punti forte di questo gruppo risultano essere sostanzialmente due. Da un lato l’ottima interazione tra i tre vocalist, con tripartizione in growl, maschile pulito e femminile di tristaniana. Peraltro, essendo tutte le voci di tipo basso e tenebroso, non si creano meravigliosi contrasti tra maschile lugubre e femminile angelico, in ogni caso però si evitano attriti tra tonalità eccessivamente diverse tra loro. Altro punto di forza è l’ottimo utilizzo di orchestrazioni versatili che donano una maestosa imponenza alle lente ritmiche dei nostri. Non di secondo piano poi il fatto che i Rise Of Avernus non si limito ai soliti archi, ma si affidino anche a massicce dosi di fiati.

A voler evidenziare i tre punti salienti del disco, ne scegliamo tre: la seconda trraccia The Mire, che si distingue proprio per gli archi e per l’abile intreccio vocale; l’estenuante Embrace The Mayhem, in cui a farla da padrone sono i fiati e gli assoli di sassofono; e la conclusiva As Soleness Recedes, ballata Novembrina nel senso che riporta alla mente i momenti uggiosi ed indimenticabili di Arte Novecento, con un canto femminile in più.

Insomma un ottimo biglietto da visita per una band alle prime armi, che non stravolge certo gli schemi ma si rivela dotata di buona personalità. Per tutti gli amanti del doom leggero il consiglio è quello di seguirli e di non restare immuni al richiamo del vuoto.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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