Recensione: Metaphor

Di Fabio Vellata - 2 Giugno 2012 - 0:00
Metaphor
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Anno: 2012
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79

Appare davvero consistente l’opera di rivitalizzazione posta in essere da David Reece con i suoi Bangalore Choir, band dallo spessore storico che, i più attenti conoscitori del fiammeggiante universo rock targato eighties, ricordano soprattutto per l’eccellente “On target”, platter divenuto nel corso del tempo il classico ed osannato capolavoro che vale un’intera carriera.

Scomparsi proprio poco tempo dopo il grande debutto, datato 1992 (epoca ormai non più adatta all’attecchimento di suoni rock tradizionali), la band è riapparsa sulle scene quasi in onore di un presunto raggiungimento della “maggiore età”. A diciotto anni di distanza (2010), l’interessante “Cadence” riportava, infatti, in attività un nome troppo presto dimenticato, lasciando però aperti i dubbi sulla possibile prosecuzione di un’esperienza che poteva avere un significato apparentemente duplice: il tipico come back, messo in pista giusto per sfruttare un rinnovato interesse per il genere, oppure, la concreta volontà di riprendere il filo del discorso, ampliando finalmente le buone prospettive solo imbastite in passato.

Alla luce del recentissimo “Metaphor”, disco che segue a soli due anni di distanza la precedente opera di rientro, il dilemma parrebbe dissolversi come neve al sole, consegnando qualche certezza in più sull’effettiva longevità del progetto, un singer ancora una volta sopra le righe e, per somma fortuna, un ottimo album di puro hard rock, in cui rintracciare del talento cristallino ed alcune canzoni di qualità.

Lontani, come forse inevitabile, dai valori assunti ad inizio carriera, i Bangalore Choir dimostrano comunque di aver finalmente raggiunto lo “status” di gruppo vero e non del semplice side project sfoderato ad uso e consumo dei fan. La line up si prospetta, infatti, stabile, con Curtis Mitchell (chitarre) e Danny Greenberg (basso) ancora uniti a Reece come agli esordi, e Andy Susemihl (chitarrista ex UDO), pronto a dar manforte come già accaduto in occasione del precedente “Cadence”.
Unica new entry, il batterista Rene Letters, minimo spostamento in una formazione che appare così attrezzata per ottenere oltre a buoni esiti artistici, anche ottima compattezza ed affiatamento.
I risultati di valore non sono quindi lontani o inverosimili ed i brani contenuti nel nuovo “Metaphor” ne sono diretta ed inequivocabile testimonianza. Hard rock vecchio stampo, esaltato da una voce dalle grandi doti espressive e da un po’ di hookline che, pur se spesso solide e vigorose, riescono a trovare la strada dell’orecchiabilità e dell’ascolto disimpegnato e facile.

La scattante e veloce opener “All The Damage Done” offre assaggi chiarificatori sin da subito: guitar work teso ed arrembante, buona melodia nel ritornello e ritmica nervosa, fanno da corollario alle potenti vocals di Reece, singer dalla caratura semplicemente eccelsa.
Rock vero, grintoso, di classe, con poca voglia di lasciarsi trascinare in facilonerie o sciocche pose da prima donna: “Trojan Horse”, “Metaphor”, “Don’t Act Surprised”, “Catch An Angel Fallin” e “Civilized Evil”, alternano mid-tempo quadrati a parti più lanciate e dirette, ponendo sempre in pieno risalto un cromosoma di purissimo e cristallino “hard rock” che si afferma poco alla volta, fortificandosi con il trascorrere degli ascolti per poi rendersi caratteristica esplosiva e caratterizzante dell’intero cd.
Il lavoro delle chitarre di Susemihl e Mitchell garantisce, oltre a notevole vigoria nei riff, anche gustosi assolo ed un piacevole estro nel variare registro, passando dall’hard torvo ed accigliato, ad atmosfere blueseggianti (“Scandinavian Rose”), da divertenti situazioni country (“Never Face Ole Joe Alone”) agli immancabili momenti di calma mista a trasporto emotivo, sfociando quindi in un nucleo di tracce senza dubbio tra le più riuscite dell’intero disco. Molto bella “Silhouttes On The Shades”, dall’armonia avvolgente e quasi ipnotica, così come la accorata “Fools Gold”, canzone probabilmente fornita del chorus più efficace dell’album.

Con la conclusiva “Always Be My Angel” il cerchio si chiude poi in via esauriente e completa: i Bangalore Choir mostrano di essere una band in grado di amalgamare il rock degli eighties con una produzione contemporanea, allineando – proprio come si usava un tempo – un flavour carico di passionalità alla grinta di chitarre sfrigolanti ed alla voce virile e testosteronica di un frontman dotato di grande carisma.

Il dado è tratto e la strada segnata. Quello che sembrava un timido ed incerto ritorno sulle scene, acquisisce ora i connotati di una solida realtà musicale che va ad arricchire di un nuovo ed importante elemento l’attuale scenario del rock melodico internazionale.
Spesso, con molta enfasi e pomposità, si usa dire “tornati per restare”.
Alla luce degli ottimi esiti evidenziati con “Cadence” e ancora di più con il fresco “Metaphor”, per David Reece ed i Bangalore Choir, l’augurio è insomma proprio questo: che per una volta, il luogo comune, risponda ad un’autentica e concreta certezza.

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Tracklist:

01.    All The Damage Done
02.    Trojan Horse
03.    Silhouettes On The Shade
04.    Metaphor
05.    Don’t Act Surprised
06.    Never Face Ole Joe Alone
07.    Scandonavian Rose
08.    Catch An Angel Fallin’
09.    Civilized Evil
10.    Fools Gold
11.    Always Be My Angel

Line Up:

Davide Reece — Voce
Curt Mitchell— Chitarra
Andy Susemihl – Chitarra
Danny Greenberg — Basso
Rene Letters — Batteria

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