Recensione: Oracles

Di Tiziano Marasco - 3 Agosto 2014 - 0:46
Oracles
Band: Zaum
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2014
Nazione:
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70

Guardando la copertina di questo disco vengono in mente molte cose: i Camel anzitutto, data la carovana di navi del deserto che vi campeggia. Ma pure il caldo dei deserti, la Mezzaluna più del Sahara, le civiltà antiche, i Babilonesi più degli Egiziani, Stargate e certi racconti di Lovecraft sul Necronomicon. E si capirà perché.

Strano a dirsi però, gli Zaum con le regioni tropicali centrano poco. Vengono dal gelido Canada e sono sotto contratto per la altrettanto gelida I Hate records, etichetta con base in Svezia. Da dove viene questa loro fascinazione per il medioriente antico non ci è dato saperlo, ma è facile intuire che questa passione abbia trovato una strana espressività musicale, ottenuta incrociando il doom dei nostri giorni e il progressive rock degli anni settanta. Frutto di tal strano incrocio è questo Oracles, strano bestione di cinquanta minuti suddiviso in quattro estenuanti capitoli.

Se volete comprendere a pieno questa proposta, vi conviene attendere uno dei rari giorni di canicola pura in questa strana estate.

Già, perché questo Oracles, pur essendo completamente doom nell’anima, lento e macilento nel suo incedere, è un disco caldo, anzi, torrido e afoso come il sole sbiadito del deserto. Un disco davvero infernale, dominato da ritmiche lente, opprimenti, sinistre, simili, ma più accessibili, a quelle dei Sunn O))) o degli Ulver di Shadows of the Sun. Uno di quei dischi in cui le note possono durare diversi minuti insomma.

Se atipico il genere però, atipica deve essere pure la formazione, dato che gli Zaum rifiutano la chitarra e si affidano ad un trio di basso, synth e batteria. Tale formazione, come si era detto, ci regala quattro canzoni da oltre dieci minuti l’una. Quattro brani tutti in divenire, tutti monoliticamente simili e pure profondamente marcati da sporadici ed inesorabili cambi di ritmo. Ma forse sarebbe più giusto parlare di cambi di tono, dato che il bpm rimane costantamente a livelli minimi.

Oltre a ciò, in ogni pezzo si notano alcuni dettagli che contraddistinguono ogni composizione dall’altra. Impossibile non citare le tastierine art prog, quasi new wave, di The read Sea. Degna di nota anche le tastiera afosa e sospesa che domina Peasnt of Parthia e Zealot, brani che paiono la colonna sonora per il sonno di Nyarlathotep e dei grandi Antichi. Infine va citata (quando appare) anche la bella voce di Alex McDonald, pulita e malefica come nella tradizione di Crawley e del neofolk.

Una proposta su cui, data l’ipnotica semplicità, risulta piuttosto difficile fornire una descrizione dettagliata, ma che pure incuriosisce con i suoi toni ibridi ed inquieti. Se si ha la pazienza di affrontarla dall’inizio alla fine, può ripagare i coraggiosi che vi si avventurano, ma rimane in sostanza un disco da consigliare molto più agli amanti del doom che a quelli del prog.

Tiziano Vlkodlak Marasco

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