Recensione: Race Against the Sun (Part one)

Di Andrea Bacigalupo - 9 Marzo 2019 - 15:02
Race Against the Sun (Part one)
Band: Dethonator
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2019
Nazione:
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70

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Dopo tre anni di silenzio discografico tornano gli Inglesi Dethonator con il loro quarto album: ‘Race Against the Sun (Part one)’, distribuito via Pavement Entertainment dal 1 febbraio 2019.

Dieci anni di carriera alle spalle, sommati ai sei precedenti in cui portavano il nome di Kaleb, hanno reso parecchio e la band oggi è dotata di un repertorio compositivo di ampio spettro, che va dalle stilettate Thrash alla melodia del Metal classico (quello degli Iron Maiden, per citare un esempio), manifestando anche una certa propensione per le linee progressive, che vengono utilizzate come elemento di fusione e di passaggio per rendere il tutto più armonico.   

Come risultato abbiamo brani eclettici ed articolati, densi di sfumature variabili ed emozionanti, non portati all’eccesso ma comunque dotati di un buon tiro.

L’album parte con ‘When Lucifer Fell’, le cui battute iniziali, giocando tra melodia e potenza, creano un senso di aspettativa, poi un riff grintoso ci mette sulla strada da percorrere: tortuosa ed insidiosa, dove s’incontrano strofe veloci cantate con voce melodica ed epica, refrain che s’induriscono e poi si ammorbidiscono, assoli dinamici ed un interludio che sembra far scendere la notte per via della cupa energia emanata dalle chitarre. Un breve assolo di batteria aumenta la forza motrice che spinge verso il finale.

Meglio l’album non poteva iniziare, ma la successiva ‘Nightmare City’ non è da meno: una tradizionale cavalcata di Twin Guitar porta ad una sparatoria di strofe e contro strofe sempre più incisive, fino al refrain che invece è carico di densa melodia. Poi, uno stacco vigoroso, che mette in luce le capacità del bassista, porta ad un interludio che stravolge completamente il pezzo, raccontando una storia che porta ad un assolo melodico che prende energia come uno sciame di calabroni che si alza minacciosamente in volo. Ma non basta: il pezzo cambia ancora, assumendo un andamento più pesante e profondo che riporta ai temi iniziali.

Burial Ground’ alterna sezioni melodiche e scattanti influenzate dagli Iron Maiden di metà anni ’80 ad altre stoppate e dai toni grevi e pesanti, che ci fanno piombare nel periodo groove degli anni ’90. Quando tutto sembra assestato e bilanciato il pezzo muta forma, previo un improvviso giro di basso di scuola Steve Harris, assumendo vigorosa energia e vivacità per mezzo dell’entrata in scena della voce growl del bassista Adz Lineker, che si alterna a quella principale in clean di Tris Lineker, dando vita ad un gioco di scambi coinvolgente e dinamico.

Seguono ‘Ulflag’, pezzo cadenzato e moderno, e ‘Ghost of the Rolling Horizon’, che alterna sezioni pesanti ad altre più epiche, dai toni che rievocano storie di antiche battaglie. I Dethonator ci fanno ascoltare la loro vena Power, dando ulteriore dimostrazione di quanto la loro mentalità compositiva sia aperta.

Dethonator Photo 450

Siamo a metà dell’opera: ‘Pyroclastic’ è un pezzo veloce e grintoso che rallenta decisamente per introdurre una chitarra acustica che accompagna un assolo prima melodico e poi deciso per giungere ad un epico finale.

The Hangman’ dall’essere drammatica diventa aggressiva, con un buon contrasto tra la melodia del refrain e la velocità della batteria che l’accompagna. Il gioco delle chitarre gemelle lega i passaggi ed è valida la decisione di dare maggiore grinta alla seconda sezione, grinta che viene improvvisamente interrotta da uno stacco acustico per poi trasformarsi in aggressione sonora di buon impatto.

Narcisside’ e ‘Terror by Night’ giocano sul continuo cambio di tempo e dell’alternanza clean – growl, dando forza all’aspetto epico dei componimenti.

L’album si chiude con ‘Sharp’s Cairn’, anch’essa divisa tra parti melodiche ed aggressive, termina con la melodia di un pianoforte.

Riassumendo, il lavoro è senz’altro positivo, è ricco di buone idee messe giù con sapienza ed esperienza e confermate da una buona abilità tecnica nell’uso dei propri strumenti, la produzione, inoltre, riesce ad esaltare correttamente la bontà dei suoni.

Bisogna dire, però, che il continuo variare schema all’interno di ogni singola canzone ha fatto si che ‘Race Against the Sun (Part one)’ non abbia al suo interno brani che si distinguano nettamente dagli altri o che lo spezzino uscendo dagli schemi, rendendo il lavoro non immediato e  un po’ difficile da assimilare, con il rischio di risultare, nel suo insieme, un po’ piatto nonostante il valore di ogni singola traccia. Questo perché il tanto eclettismo manifestato in ogni singolo pezzo ha portato il sound dei Dethonator a  ritorcersi su se stesso, diventando un po’ ripetitivo, ossia proprio quello che il combo voleva evitare. E’ comunque un album da ascoltare, possibilmente con una certa attenzione per apprezzarne la svariate sfumature.   

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