Recensione: Sorceress

Di Roberto Gelmi - 2 Ottobre 2016 - 12:00
Sorceress
Band: Opeth
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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70

Per l’ultima attesa e divisiva uscita in casa Opeth, la redazione di TM ha pensato di proporre ai lettori una doppia recensione, come già in passato per altri album “controversi”. Due angolazioni, due punti di vista differenti d’intendere la musica degli svedesi. La verità, ovviamente (?), in medio stat.

 

Recensione di Andrea Poletti

“Un album raffinato. Il mio favorito ad oggi nella nostra discografia e come potrebbe essere il contrario? Un album che contemporaneamente sa di nuovo e vecchio, ha quella sensazione di progressive rivisitato. Lo percepisco sia tranquillo che caotico; “heavy” nella maniera in cui piace a me”

Mikael Åkerfeldt  in merito all’ultimo “Sorceress”

Troppo è stato detto e urlato sia a voce che via computer sulla svolta musicale intercorsa dagli Opeth negli ultimi anni, oramai la storia è arcinota per cui tornare a parlare di un perché o percome risulterebbe decontestualizzato e fuori ogni logica. Preferirei concentrarmi su cosa abbiamo in mano, discutere su cosa trasmette e ridefinisce nella discografia dei nostri questo nuovo, dodicesimo album “Sorceress”, che a quanto pare, alle orecchie del suo creatore risulta il migliore della discografia. Registrato in dodici giorni presso i Rockfield Studios in Galles dove in passato Rush, Judas Priest, Black Sabbath, Queen, Sepultura e molti altri hanno concepito alcuni grandi album; in quel luogo gli Opeth hanno scelto la via della semplificazione, arrivando in studio con già tutto pronto, senza lasciare nulla all’improvvisazione concentrandosi più su aspetti prima lasciati alle spalle. La volontà di cercare di mantenere un’aurea di verità e genuinità sull’intero prodotto è palese attraverso una produzione quanto mai scarna ma paradossalmente laccata; ottimale per le tracce proposte che di vero hanno solamente la necessità di trasmettere la mente e la creatività di Åkerfeldt stesso. Potremmo dunque vedere la band sotto l’ipotetico monicker “The Mikael Åkerfeldt Orchestra” che non ci sarebbe alcun problema, perché la sensazione di gruppo, di unione e condivisione compositiva è andata a perdersi anno dopo anno. Uno e Trino. La cover stessa ci lascia capire, se analizzata nel dettaglio, come il passato è sepolto, ucciso e smembrato per mai più farvi ritorno; un pavone delicato e grazioso sormonta una pila di arti sanguinanti che è altro non è che un testamento per quella band identificabile quale “c’era una volta”… Cosa accade dunque lungo questi cinquantasei minuti e trentacinque secondi?

Un leggero e sensuale arpeggio ci introduce all’avventura, un lungo tortuoso cammino verso soddisfazioni e insoddisfazioni; prima di andare oltre vorrei precisare come un track by track è controproducente in questo specifico caso, “Sorceress” va assimilato come una grande entità, che attraverso un flusso di musiche e sensazioni, fluttua su lidi eterei agli antipodi del mercato contemporaneo. O forse no? Dopo l’intro ‘Persephone‘, che verrà ripresa nel finale quale chiusura del cerchio, la ‘Titletrack’ si presenta a noi ma detta francamente, il primo minuto pare essere la colonna sonora di Space Invaders del commodore 64 prima che un riff più grasso e corposo si delinei all’orizzonte. Ciò che da questo momento in poi accade è abbastanza classico, se considerati gli Opeth post svolta stilistica, ciò che colpisce maggiormente è il feeling cupo e decadente che si respira lungo ogni traccia. Ascoltando brani attraverso la tracklist quali ‘The Wild Flower’, ‘Chrysalis’ o ‘Era’ diventa palese come non vi sia voglia di offrire sensazioni o emozioni; il trasmettere e il raccontare era alla base di ogni concepimento degli Svedesi un a decade addietro mentre oggi pare tutto insignificante. Come già detto paragonarli è impossibile, ma almeno la volontà di esternare, donare qualcosa al pubblico dovrebbe essere palese mentre ad oggi ogni brano è apatico, privo di anima e spontaneità. Questa probabilmente è la pecca più grande del gruppo oggi, costruire brani discreti ma senza riuscire a sfondare il muro della quarta parete empatica con il pubblico. Questa ipotetica apatia è riscontrabile anche nei passaggi più lenti ed atmosferici, attraverso la Jethro Tull-iana ‘Will O the Wisp’, la strumentale ‘The Seventh Sojourn’ e l’effimera ‘A Fleeting Glance’ vi si trovano ottime melodie ma combinate con una frustrante ipermonolicità della struttura compositiva, che porta al desiderio di skippare oltre sperando di trovare nel passaggio successivo qualcosa di più dinamico o eccentrico. Non tutto è da buttare, la gemma, quella canzone che pur rimanendo in linea con la musica proposta si estranea dal contesto è l’ottava ‘Strange Brew’; una sola canzone ma quanto basta per mettere in mostra l’estro compositivo di Mikael, lungo una struttura complessa e fresca; la vera perla del disco che innalza e sorvola ciò che lasciamo alle spalle. “Sorceress” nel complessivo ha grandi potenzialità, qualche sprazzo di genialità e molta consapevolezza dei propri mezzi; ciò che infastidisce però e inizia a far storcere il naso sin dal primo ascolto è la piattezza del complessivo. I livelli dei singoli strumenti sono bilanciati chirurgicamente e la struttura generale non riesce mai ad alzare gli animi, adagiandosi su tempistiche che pur svolgendo perfettamente il loro compito non brillano quanto originalità e innovazione. Così arriviamo al culmine dell’intero processo di brainstorming: la “The Mikael Åkerfeldt Orchestra” non offre altro che una serie di brani che nascono da parti incollate tra di loro prese da quell’epoca dove il prog rock italiano era un orgoglio nazionale da globalizzare. L’operazione di decontestualizzazione e contemporaneizzazione dell’intero processo di songwriting di decadi oramai remote funziona e tanto oggigiorno, non sono ne i primi ne gli ultimi ma una volta tolto il monicker dalla copertina questo concepimento diventa un puntino nello spazio eterno.

Sorceress” non deve e non può essere bocciato sulle basi di ciò che ho scritto, ha molti lati positivi che fanno si che l’ascolto scorra tranquillo, senza però mai lasciare il segno; sono curioso di vedere tra tre, quattro anni quanti di coloro che oggi vedranno il capolavoro in undici atti saranno li a consumare quotidianamente tali creazioni. Paradossalmente è il migliore della svolta stilistica, ma diventa sempre un punto interrogativo sulla spontaneità e sulla sincerità della proposta in essere; gli Opeth oggi sono dei romantici compositori senz’anima, che vivono il loro Sturm und Drang con l’orgoglio del pavone che non si accorge delle piume perse nel giardino di casa.

Ci sono tanti diamanti falsi in questa vita che passano per veri, e viceversa.

(William Thackeray)

VOTO: 60

 

Recensione di Roberto Gelmi

Gli Opeth sono una band difficile da ignorare, anche al dodicesimo studio album. Tanti i motivi, l’alone decadentista che li avvolge, la statura del mastermind Åkerfeldt, il loro glorioso passato, ma soprattutto la speranza di assistere al ritorno del figliol prodigo nel seno del metallo. È dal 2008 che non ascoltiamo più il growl sopraffino del cantante e compositore svedese, un vero peccato, era uno dei pochi artisti che sono riusciti a fare amare questa tecnica a chi di death ne bazzica poco. A pensarci bene il gruppo scandinavo ha lasciato la via della sperimentazione estrema per riconfluire volontariamente nell’alveo del prog. rock anni Settanta, nel tentativo opinabile di rilanciare un genere che pare aperto a rivisitazioni infinite, ma spesso sterili.

Questa volta galeotta è la copertina, con un pavone giunonico dal becco tinto di sangue (c’è anche il logo, vedete se riuscite a trovarlo): la componente gore dell’artwork indicherà un ritorno al dettato che fu? Tagliamo la testa al toro, no, di growl non c’è traccia in Sorceress, ma non per questo si tratta di un album mediocre.
Anzitutto, per chi come il sottoscritto non erano andati giù i due precedenti album, l’ultimo nato in casa Opeth ha il valore intrinseco di una maggiore longevità. Dopo una decina di ascolti ancora non stanca e si ha voglia di rituffarsi nelle sue atmosfere che scavano nel lato oscuro dei Seventies (agli antipodi di quello solare stile Yes per intenderci). Gli Opeth come contraltare, dunque, dei connazionali The Flower Kings? Chi l’avrebbe mai detto…
Ma entriamo nel merito della tracklist, che come in passato regala alcuni titoli ricercati (utili per migliorare il nostro lessico inglese).
L’album vive di momenti soffusi e ballad malinconiche, ma non vengono meno alcuni empiti di maggiore dinamicità e virtuosismo: il dualismo apollineo-dionisiaco del passato rivive in una forma ridotta, ma l’effetto suspense è sempre dietro l’angolo, un gruppo come gli Opeth, volendo, potrebbe suonare qualunque cosa.
Tra gli highlight segnaliamo: l’assolo di chitarra in “The Wilde Flowers”, da godere secondo dopo secondo; l’intera strumentale “The Seventh Sojourn”, canzone araboide che ricorda l’altrettanto suadente “Beneath the Mire” del 2005; la frizzante “Era”, con un refrain impegnativo per Åkerfeldt. Da non sottovalutare anche le due bonus track, con un Martin Mendez sugli scudi, “The Ward” e “Spring MCMLXXIV” (autoschediasma di Åkerfeldt, nato nel 1974). La produzione è avvolgente e retrò, in linea con la poetica del rilancio settantiano degli svedesi. È, comunque, una via per emanciparsi dai soliti mixaggi appiattenti tutti uguali, di questo dobbiamo prenderne atto. Tra i passi falsi va ricordato l’inizio di “Fleeting Glance”, troppo moscio, così come altri momenti anodini dell’album, che non sempre vive di un’ispirazione e una creatività sopra le righe. Non ci dilunghiamo sulle varie influenze, Jethro Tull, Camel, Area… ognuno in base al suo vissuto musicale saprà cogliere i tanti rimandi presenti nel disco.
In conclusione Sorceress è un album che potrebbe far riaccostare agli Opeth i progster meno smaliziati e mettere a tacere i dilemmi dei vecchi fan: non pare credibile, ormai, che il passato – metal – possa ripetersi, mettiamoci il cuore in pace e accettiamo gli Opeth per quello che sono oggi.

VOTO: 80

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