Recensione: Suicide Silence

Di Stefano Burini - 9 Marzo 2017 - 9:00
Suicide Silence
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2017
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
69

Vuoi per la musica che propongono (proponevano), vuoi per il look, vuoi per la prematura fine di quel Mitch Lucker che rappresentava corpo e anima della band dal vivo, i Suicide Silence sono da sempre tra le band più chiacchierate dell’interno panorama metal moderno.

Non stupisce, dunque, che anche il loro ultimo studio album abbia portato in dote una certa hype, gonfiata a dismisura dopo l’annuncio dell’ingaggio di un (ex?) guru come Ross Robinson (produttore di svariati dischi di gente come Korn, Deftones, Machine Head, nonché soprannominato “padrino del nu metal”) alla consolle. Ciò che tuttavia non era certamente possibile immaginare a priori – e che anche dopo svariati ascolti lascia attoniti – era il motivo per il quale l’ultimo parto della band ormai capitanata da Eddie Hermida e Chris Garza avrebbe fatto fatto parlare e straparlare di sé: una svolta talmente netta a livello di sound e di contenuti da non poter essere accolta che con sgomento dai molti fan della band americana nonché dagli addetti ai lavori.

Dall’aspro e per nulla friendly “The Black Crown” al più groovy ed addomesticato (termine da prendere con le ovvie pinze, Ndr) “You Can’t Stop Me”, di modifiche/implementazioni a livello di stile e contenuti se ne potevano già trovare a bizzeffe – basti solo pensare all’obbligato cambio di vocalist – ma nulla che lasciasse presagire quanto il quintetto di Riverside avrebbe fatto confluire in questa ultima fatica, semplicemente intitolata “Suicide Silence”.

Pensare che Robinson ci abbia messo lo zampino, vista la sua aura di santonte e viste la repentinità e la nettezza del “taglio” che ha portato i Suicide Silence dal “vecchio” deathcore all’attuale mistura di alternative, nu metal, groove e metalcore, appare inferenza più che ovvia. Eppure, ascoltando canzoni oggettivamente benissimo riuscite quali l’ambiziosa “Listen”, l’ipermelodica “The Zero” e la sontuosa “Conformity”, è difficile pensare che Hermida, Garza e tutto il resto della ciurma non ci abbiano messo tanto del loro per ottenere un risultato così lontano dalle loro abituali corde ma nel contempo in grado di risultare non forzato all’ascolto.

Intendiamoci, il debito d’ispirazione nei confronti di alcune band cardine del movimento nu metal risulta evidente e per certi versi paradossale («ma come? Questi fanno deathcore, sono al passo coi tempi, hanno la loro fanbase e tutto sommato sono abbastanza rispettati e tutt’a un tratto si mettono a suonare come i Deftones?»), ma quando esso si traduce in brani ispirati, pulsanti e molto ben costruiti è possibile pensare di chiudere un occhio.

In questo senso  più che le pur gradevoli – ma fin troppo calligrafiche – “Run” e “Dying In A Red Room” (con Hermida a fare incredibilmente il verso al miglior Chino Moreno, NdR) sono i brani che riescono a coniugare con sapienza e intelligenza le influenze nu con il retaggio death/metalcore a farsi maggiormente apprezzare. Di “Listen”, “The Zero” e “Conformity” si è già detto, per quanto valga la pena rimarcare l’ennesima prestazione monstre di un Eddie Hermida al top assoluto della categoria, ma anche “Silence”, la vituperata “Doris” – vera e propria pietra dello scandalo gettata in pasto ai leoni in fase promozionale – e la conclusiva “Don’t Be Careful You Might Hurt Yourself” si difendono piuttosto bene grazie ad una serie di melodie riuscite e ad un guitar work dal gusto sorprendentemente raffinato.

A conti fatti l’unica canzone un po’ fuori contesto risulta essere proprio l’unica interamente votata al deathcore più ferino (“Hold Me Up, Hold Me Down”), brano forzatamente cruento e non particolarmente brillante che suona paraddosalmente come una zavorra nell’economia di un album giocato per quasi tutto il tempo su tutt’altre coordinate.

Giunti alla fine della disamina la domanda da porsi è una e una soltanto: è possibile – o quantomeno “eticamente” corretto – estrapolare un’opera dal proprio contesto?

Molto probabilmente no, perché il contesto – storico, geografico e sociale – è parte integrante della storia che si cela dietro ad un quadro, ad una scultura, a un film o a un disco. Opere che non possono quindi essere completamente scisse dal terreno, più o meno fertile, brullo o sabbioso dal quale sono sono germogliate.

Eppure “Suicide Silence”, contro ogni pronostico e pur strizzando l’occhio – apparentemente senza alcun motivo tangibile – ad un sound e ad un immaginario vecchi di ormai una ventina d’anni, per larga parte della sua durata suona sufficientemente bene da non apparire così finto ed artefatto come sarebbe stato lecito attendersi e da rendere anzi davvero arduo emettere un giudizio netto ed univoco. Voi da che parte state?

Stefano Burini

Ultimi album di Suicide Silence