Recensione: Teethed Glory And Injury

Di Tiziano Marasco - 1 Novembre 2013 - 4:31
Teethed Glory And Injury
Etichetta:
Genere: Sludge 
Anno: 2013
Nazione:
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70

Caso strano quello che ci porta davanti a Teethed Glory And Injury, terza e probabilmente ultima fatica degli irlandesi Altar of Plagues. Ultima secondo le parole dello stesso James Kelly che con un comunicato fulmine lo scorso luglio aveva annunciato come il nuovo parto della sua band fosse stato concepito in veste di canto del cigno, opera definitiva che non avrebbe avuto alcun seguito. Proprio due settimane fa tra l’altro i gaelici si sono esibiti per l’ultima volta dal vivo in Polonia ed hanno consegnato la loro avventura al semplice ricordo. Ora del futuro poco si sa, Wife a parte.

In questo Teethed Glory And Injury il trio irlandese prosegue sulla deviazione rappresentata dal buon Mammal, concentrandosi però sempre più sulla sperimentazione e la ricerca sonora, allontanandosi dal black metal furibondo. Il cambiamento che colpisce sin da subito è di natura strutturale. Se i primi due dischi della band si componevano entrambi di 4 estenuanti composizioni, almeno tre delle quali oltre i dieci minuti, questo terzo capitolo si articola in nove episodi dalla durata contenuta, quasi tutti tra i tre e i quattro minuti. Rimangono le debite eccezioni, pur tuttavia anche queste non arrivano a lunghezze opprimenti.

A livello sonoro, e a dispetto d’un artwork mai così pulito e ben definito, notiamo altresì che la vena sperimentale di Kelly e soci si spinge sempre più avanti in un disco dove l’originale miscuglio di black, doom, e sludge vede l’onnipresenza di tastiere e synth malati, per un sound che quasi sempre risulta oscuro ed ossessivo nelle sue cadenze lentissime, ripetitive fino allo sfinimento. Ne vengono fuori sonorità di indubbio valore e fascino, a cominciare dalla malatissima opener Mills, una strumentale di rare malessere  che degenera in God alone, pezzo dalla lenta ma inesorabile evoluzione che spazia ancora da atmosfere incubiche intervallate da sporadiche e tempestose sfuriate. Gli spunti qualitativi non mancano, come la claustrofobica Remedy And Fever o Found, Oval and Final. Ma sicuramente gli episodi migliori sono ancora una volta quelli di ampio respiro, Scald Scar Of Water e soprattutto Twelve Was Ruin, coi suoi frequenti cambi di atmosfera che spaziano tra il David Tibet più inascoltabile e il Burzum più atmosferico, fino ad arrivare alla conclusiva Reflection Pulse Remains, dove le tenebre vengono squarciate da fulminei giri di chitarra.

Il risultato è di indubbio livello, ciò nonostante non siamo dinnanzi ad un disco destinato a tutte le orecchie. Lo strapotere di synth distoriti infatti rischia spesso di far sprofondare il disco nel baratro della piattezza, così come un pezzo pioneristico come Mills risulta spiazzante nella sua impenetrabile, strascicata ripetitività, sicché buona parte degli ascoltatori rischia di giungere a God Alone già annoiata. Insomma un disco che conferma le buone capacità degli Altar of Plagues eppure non scioglie i dubbi circa la grande band che avrebbero potuto diventare.

Tiziano Vlkodlak Marasco

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