Recensione: The Year The Sun Died

Di Marco Donè - 14 Ottobre 2014 - 17:00
The Year The Sun Died
Band: Sanctuary
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2014
Nazione:
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70

Gli anni Ottanta oltre a dare i natali ad alcuni tra i capitoli più importanti nella storia della musica a noi cara, hanno anche lasciato in eredità nomi che nell’immaginario collettivo hanno assunto uno status prossimo alla divinizzazione. Band che hanno composto due o tre dischi al massimo, ma di qualità e personalità uniche nel panorama di quei gloriosi anni. Se immaginassimo un elenco composto da tutte quelle band che, dopo una manciata di dischi seminali, inspiegabilmente scomparirono senza lasciar di loro traccia, alla lettera “S” incontreremo senza ombra di dubbio i Sanctuary. La band di Seattle pubblicò due dischi, il debutto “Refuge Denied”, prodotto da Dave Mustaine, nel 1987 e “Into The Mirror Black” nel 1989. Se il primo risulta essere un magniloquente disco inquadrabile nello US Power, il secondo è un disco che tracciò un sentiero che, di lì a poco, sarebbe stato approfondito e portato a livelli ineguagliabili da un ensemble figlio diretto dei Sanctuary, una band rispondente al nome Nevermore. “Into The Mirror Black” suonava cupo ed introspettivo, dark e progressivo, con delle bordate riconducibili allo US Power degli esordi. Un disco figlio diretto di una città come Seattle, da sempre culla di sonorità che scavano dentro, guardano nel profondo dell’io umano. Per provarne a definire la natura, prendiamo in prestito un espressione tanto cara a Century Media, quel “dark and diverse metal”, coniata dalla label tedesca per definire l’entità espressiva della band americana. Un disco che, bruscamente, diventò l’ultima prova sulla lunga distanza operata da un act che sembrava destinato ad una gloriosa esistenza. Dalle ceneri dei Sanctuary nacquero i Nevermore e “Into The Mirror Black” trovò il suo figlio diretto, il proprio erede legittimo, in un disco nato in una decade differente, un album proiettato verso un nuovo orizzonte, intitolato “Dreaming Neon Black”, la massima forma espressiva di quella definizione citata poc’anzi.

 

Tutti conosciamo la storia dei Nevermore e tutti siamo a conoscenza delle cause che portarono alla momentanea pausa della band con la successiva reunion dei Sanctuary. Reunion che fece nascere opinioni contrastanti, ipotesi varie sulle motivazioni di tale scelta. Tutte cose che non staremo qui a riportare, a noi interessa la musica ed entrare nel dettaglio di quello che risulta esser uno dei dischi più attesi di questo 2014, “The Year The Sun Died” il comeback discografico della leggendaria band di Washington. Ma come suona dunque “The Year The Sun Died”? Questa è la domanda che tutti i fan di Sanctuary e Nevermore si stanno sicuramente ponendo. Senza inutili giri di parole, possiamo dire che il nuovo platter segue la via tracciata da “Into The Mirror Black” senza però eguagliarne l’espressività, anzi, il disco presenta qualche passaggio poco convincente. Particolare già riscontrato nelle ultime produzioni griffate Dane. Va però detto che le elevate aspettative ed attese che si sono mosse attorno a questa nuova uscita, hanno reso l’ascoltatore estremamente esigente. Forse, se quest’album fosse stato sfornato da dei giovani newcomer, staremmo tutti gridando al miracolo, ma, nel nostro caso, con quel nome presente sulla copertina, è normale attendersi un qualcosa che entri nella mente dell’ascoltatore e vi rimanga impresso in maniera indelebile. Sebbene “The Year The Sun Died” sia un buon disco, ciò non accade ed anzi, alla lunga, dopo ripetuti ascolti, risulta un po’ freddo e staccato.

 

Per questa nuova release, il duo Rutledge/Dane, autore di tutte le tracce che compongono “The Year The Sun Died”, decide di sfornare un concept album incentrato sulla figura della profetessa Lenore e la sua profezia riguardante la morte del Sole. Tematica perfetta per Dane e soci che ben si sposa con quel sound cupo ed oscuro presente nel dna della band. Inoltre, questo tema, dona loro la possibilità di analizzare molti aspetti della società umana.

 

Facendo partire il disco, ci imbattiamo in “Arise And Purify”. La canzone è da tempo nota e l’averla posta in apertura è sicuramente una scelta azzeccata. Un ottimo ritornello, in pieno stile Sanctuary, ed una struttura ben studiata su cui spiccano un’ottima dinamica e la prova del redivivo Rutledge alla chitarra. “Arise And Purify”, forse, rappresenta al meglio l’idea di Dane che in più di un occasione, in merito al ritorno dei Sanctuary, ha parlato non di reunion ma di reinvenzione. La produzione, affidata alle sapienti mani di Chriss “Zeuss” Harris, è estremamente moderna in linea con gli ultimi lavori dei Nevermore. Dane canta à la Nevermore mentre il riffing di Rutledge risulta molto legato all’ultimo periodo Sanctuary, quello di fine anni ottanta. Una miscela tra vecchio e nuovo che renderà la traccia d’apertura una delle migliori del disco. Tocca poi a “Let The Serpent Follow Me” che risulta essere il primo passaggio a vuoto. La canzone, sebbene parta alla grande, non decolla mai e, nonostante sia ben suonata ed interpretata, si trascina alla fine dei suoi quasi cinque minuti senza far sobbalzare sulla sedia e, ad ascolto finito, lascerà ben poco di sé. Queste prime due canzoni rappresentano le due facce della stessa medaglia: una convincente ed efficace, l’altra un po’ più piatta e soporifera. Proseguendo l’ascolto, il disco ci fa fare qualche sussulto, soprattutto nella sua prima parte, con “Exitium” in cui il riffing di Rutledge è in perfetto Sanctuary style, la cupa e Nevermore oriented “I Am Low”, l’aggressiva “Frozen” – altra traccia nota grazie al video girato e messo in rete poco prima dell’uscita del disco – in cui il chitarrismo del duo Rutledge/Hull raggiunge, forse, i livelli più alti all’interno dell’album. Anche Budbill, alla batteria, lascia il segno. Da qui in poi ci troveremo a percorrere binari non proprio memorabili fino all’arrivo della title track, posta in chiusura, che risulterà uno dei capitoli meglio riusciti. Canzone ben studiata e curata che riesce a scuotere emotivamente l’ascoltatore, merito soprattutto di un ritornello in pieno stile Dane. Canzone dal drammatico incedere che trasmette totale desolazione, rappresentando al meglio il capitolo finale del concept qui trattato.

 

Come si può facilmente intuire, “The Year The Sun Died” ci lascia un po’ l’amaro in bocca. Forse sarebbe stato più azzeccato farlo uscire sotto il marchio Warrel Dane, anziché rispolverare l’altisonante Sanctuary, creando delle aspettative al momento irrealizzabili. Sebbene le canzoni siano state composte a quattro mani, è facile intuire che le coordinate date dal singer americano abbiano avuto un peso maggiore. Dane al momento, vuoi per poter esprime al meglio la sua voce, vuoi per una propria visione musicale, ha necessità di partiture più lente e meno intricate. In quest’ottica, un disco a suo nome, avrebbe sicuramente avuto un altro impatto e giudizio dal pubblico.

The Year The Sun Died”, a nome Sanctuary, nonostante sia ben suonato e risulti esser un buon disco, nella cui versione limitata, in chiusura, troviamo la piacevole cover dei The Doors “Waiting For The Sun”, verrà ricordato più come “tentativo di reunion dei Sanctuary” che per le sua qualità. A volte, le leggende, dovrebbero restare tali o tornare per delle esibizioni live mirate…

 

Marco Donè

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