Recensione: Troi

Di Stefano Santamaria - 9 Febbraio 2017 - 0:00
Troi
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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90

Ritornano i bellunesi  Delirium X Tremens, dopo cinque anni di silenzio, con un capitolo discografico intenso tanto quanto il suo predecessore. “Belo Dunum, Echoes from the Past” non fu quindi un isolato episodio dalle velleità folk pagan, tant’è che “Troi” continua felicemente su quelle direzioni.

Le tradizioni e la cultura della propria terra di origine, un concetto pagano che attinge dalle proprie tradizioni, senza andare a pescare a quelle norrene. Un’operazione coraggiosa, e che dona inequivocabilmente un fascino che va ben oltre i dettami del filone estremo.

Il death metal resta la base di partenza, un sound cerebrale e tecnico che si mette al servizio di ambientazioni teatralmente raffinate, ma non per questo meno genuine. L’odore della montagna, della roccia scolpita dalle stagioni. Storia scritta dal tempo, con mano ferma solcata da emozioni che dal cuore scorrono sin fino queste ruvide crepe.

Seduti a contemplare il cielo, siamo invasi dal contadino fervore di vedere sorgere il sole, una semplicità che diventa raggiante felicità. “The Voice Of Holy River” incarna tutto questo, questa serenità.

 La successiva “Owl” ci trasporta in notturne ambientazioni, in una drammaticità che ci parla di spiriti erranti e di sguardi che non perdonano. Nei vari pezzi, poi, si intravedono citazioni di matrice black, quasi ci fosse un ideale incontro tra Nile, Behemoth e Bathory.

Il livello è alto, ma non siamo mai soffocati da virtuosismi, tanto da farne ai Delirium X Tremens. Sarebbe più semplice spingersi oltre a livello strumentale, invece di intessere pazientemente strutture assai complesse ma pregne di ambientazioni. 

Genuinità e classe, si incontrano tra le colonne di una solennità di una storia vissuta ed amata visceralmente. Degna di menzione la cover ‘Song To Hall Up High’, da un brano dei Bathory, omaggio ad una band che ha segnato il filone pagan di tutti i tempi. 

Il full-lenght impersonifica così l’amore ed il rispetto che si hanno per  luoghi che rappresentano la propria casa, per quella montagna che ci custodisce e che deve essere rispettata, in quanto piena di pericoli ed ostacoli. L’ideale ascesa verso la cima è l’immagine di un percorso di vita in cui non bisogna aver paura di affrontare le avversità, perché portano verso l’alto. Vi invitiamo così a seguir questo sentiero tra lupi ululanti e civette, scoprendo o rivivendo i racconti delle nostre fantastiche terre.
 

Stefano “Thiess” Santamaria

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